Pizzo di Trona e lago d'Inferno

In cima alla Val Gerola si trovano montagne non altissime, ma dense di fascino anche un po' sinistro e sulfureo. Spicca fra tutte, non primo in altezza (lo è il vicino pizzo dei Tre Signori, m. 2554), ma in eleganza, il conico profilo del pizzo di Trona (m. 2510, localmente chiamato "piz di vèspui"), sulla dorsale che separa la Val Pianella dalla Valle d'Inferno. Trona da “truna”, probabilmente, cioè “spelonca”, “cavità”, con riferimento alle antiche miniere di ferro che irraggiavano sinistri bagliori quando la luce prendeva congedo dal mondo guardingo dei valligiani.
Raccontano diverse leggende valtellinesi che ai tempi della prima evangelizzazione molte delle grotte sui più alti recessi montani fossero dimora di santi eremiti, che con la parola ma ancor più con l'esempio portavano e sostenevano la fede fra queste valli. Dalla piana della bassa Valtellina salì in Val Gerola anche l'eremita Trona, diffondendo la parola del Vangelo e ritirandosi a vita di rinuncia e preghiera in una grotta sul fianco del pizzo dei Tre Signori. Il pizzo di Trona ancora non esisteva: la leggenda racconta anche di come nacque.


Il pizzo di Trona

Grande era il carisma dell'eremita presso gli alpigiani: colpivano la sua austerità, la sua fede profonda, la dedizione totale alla missione di testimoniare senza compromessi l'adesione a Cristo e l'imitazione della sua povertà. Fin qui la luce. Essendo la trama delle leggende in chiaroscuro, viene il momento dell'ombra. Il diavolo si è sempre messo d'impegno per cercare di colpire il bene proprio laddove questo manifesta maggiormente il suo splendore.
Saputo del sant'uomo nella spelonca del pizzo, decise di rovinarne l'opera e ne ripercorse i passi, su su per la Val Gerola, passando di paese in paese. La sua salita non passò inosservata. Proposito del diavolo è di rovinare non solo le anime degli uomini, ma anche le loro sostanze, le magre risorse di cui potevano disporre in passato i contadini che vivevano nel delicato equilibrio fra sussistenza e fame, aggrappati ai loro monti. Bastava poco per compromettere quell'equilibrio, sbilanciandolo sul lato della fame, ed il diavolo ci si mise d'impegno perché ciò accadesse. Passava di stalla in stalla, gettava letame nella caldera del latte cagliato e nella conca della panna, rovinando entrambi i preziosi prodotti della fatica degli alpigiani. Scatenava temporali tanto improvvisi quanto terribili, che impregnavano d'acqua i ripidi prati dei maggenghi, provocando rovinosi smottamenti. Avvelenava lo spirito degli animali sugli alpeggi, rendendoli sempre più aggressivi e litigiosi, al punto che qualche volta ingaggiavano furibonde lotte fino alla morte. Non risparmiava le anime della gente di montagna, fra cui cominciava a serpeggiare la funesta discordia, che divide e rovina, e la stessa fede vacillava in molti cuori. E così accadde di paese in paese.
Il diavolo raggiunse la testata della valle, e si annidò sul fianco del pizzo Varrone. Non fu un ripiegamento, neppure una pausa: da lì giorno e notte si muoveva per rinnovare la sua malefica opera, i cui segni erano sotto gli occhi di tutti, in Val Gerola e nella vicina Val Varrone.


Il pizzo di Trona ed il pizzo dei Tre Signori

Gli abitanti di Gerola e Premana non tardarono a comprendere quel che stava accadendo, e capirono che solo il santo eremita poteva opporsi allo strapotere demoniaco. Salirono da lui, supplicandolo perché facesse qualcosa per liberare le valli dalla plumbea cappa del male. Trona non fu insensibile alla loro supplica; disse loro “Pregate, abbiate fede”. Il mattino successivo lasciò la sua grotta e scese verso il pizzo Varrone. Vedendolo arrivare, il diavolo pensò che fosse giunta l'ora della resa dei conti: senza Trona la valle sarebbe stata interamente sua. Per prima cosa scatenò uno dei suoi temporali violentissimi, anzi, il più violento, con tuoni che squassavano le rocce ed acqua che scendeva come mai s'era visto. Poi raccolse una gran quantità di massi e si mise a scagliarli contro l'eremita. Gli abitanti delle valli osservavano, con il fiato sospeso, da una sufficiente distanza di sicurezza. Parve a molti che fosse giunto il giorno del giudizio.


Pizzo di Trona e lago Rotondo

Fra lampi e scrosci violentissimi di pioggia l'eremita procedeva sicuro. Nessuno dei massi lo colpì. Ad un certo punto si fermò, presso un enorme macigno, e con la mano vi tracciò solennemente una croce. Accadde qualcosa che nessuno avrebbe più dimenticato: il segno divenne una fenditura, la fenditura divenne spaccatura, il masso si frammentò in quattro parti e cominciò a rotolare giù, sul pendio a monte della tana del diavolo, che ne fu investito a piena forza. Lo spirito malvagio fu scaraventato nella piana ai piedi del pizzo dei Tre Signori. La terra si ritrasse e si scavò un'ampia voragine, che i rabbiosi torrenti formati dal diluvio di pioggia riempirono in breve tempo. Sotto la massa d'acqua imponente il diavolo scomparve. “E' morto, è morto!”, gridò qualcuno. “No, non può morire, è tornato nel suo inferno”, replicò qualcun altro. Fu questa, forse, l'origine del nome che venne poi scelto per il lago che si andava formando, il lago d'Inferno.


Apri qui una panoramica sul pizzo di Trona

Ma i prodigi di quel giorno del giudizio non terminarono qui: la terra ritrattasi per non essere toccata dal diavolo si sollevò in alto e si raccolse tutta insieme, in forma bella, elegante, formando una nuova fiera cima, a forma di cono. Neppure qui vi fu esitazione: fu subito battezzata pizzo di Trona. Il neonato pizzo fu accolto di buon grado (ma non senza una punta d'invidia) anche dalle cime che lo circondavano. La bocchetta e la facile elevazione a sud del pizzo, dove i valligiani si erano raccolti per osservare lo scontro, fu invece chiamata “Paradisino”, perché a tutti parve di stare in paradiso, soprattutto quando, a lago ormai fatto, la pioggia cessò quasi d'improvviso e i primi raggi trapassarono le nubi ancora gonfie d'impotente ira.
Da quel giorno non possiamo dire che il diavolo non sia più entrato nella valle, perché quello spirito malvagio mai riposa né mai si dà vinto. Ma rimase in tutti la certezza che la sua opera non avrebbe mai avuto il sopravvento sullo spirito del bene. Questo ricordano e raccontano gli anziani della valle, soprattutto quando, sul far della sera, il pizzo di Trona si specchia nel lago d'Inferno, rinnovando la memoria della sua vittoria. Uno di loro lo raccontò a Bruno Carissimo; ora si può leggere il suo racconto nel bel volume “Il pizzo dei Tre Signori – Una montagna da protagonisti”, di Angelo Sala (Bellavite Editore in Missaglia).


Apri qui una panoramica su lago d'Inferno e piazzo di Trona

Pare però che il diavolo non si sia limitato a tormentare il versante valtellinese della valle che porta il suo nome. Sì, perché a sud della bocchetta dell’Inferno si trova una valle che ha il medesimo nome, Valle d’Inferno. Non si tratta di una mera duplicazione, ma di una presenza antichissima che ha turbato non poco i buoni valligiani di Ornica, tanto che l’antichissimo nome di Val Fornasicchio, dovuto ai forni ed alle fucine ivi presenti, è caduto nell’oblio, soppiantato dal nuovo e più sinistro nome.
Due le leggende che hanno questo tema. La prima ha come protagonisti due piccoli pastori di Ornica, mandati a pascolare le pecore lassù dove l’erba è buona, poco sotto l’imbocco del canalone terminale della valle che poi si chiamerà dell’Inferno. Non era la prima volta che salivano fin lassù, ma quella volta, per troppa confidenza, si distrassero giocando fra di loro, e le pecore salirono più in alto. Non vedendole più, si spaventarono moltissimo, perché perdere un gregge era una vera e propria disgrazia. Salirono più in alto, fino al punto in cui si vede quella sinistra formazione rocciosa che presidia il passo, la Sfinge. Gli ultimi raggi del sole facevano balenare inquietanti bagliori rossastri. Il sole era appena calato quando i due, con grande sollievo, scorsero le pecore raggruppate su un costone. Corsero fino all’affanno e con il tono più imperioso che riuscì loro le raccolsero per richiamarle alla via del ritorno.


La Sfinge

La bocchetta d'Inferno

Fu allora che notarono uscire da una vecchia baita diroccata, cui nessuno faceva più caso perché disabitata da chissà quando, un filo di fumo. Si avvicinarono per vedere chi avesse acceso il fuoco. All’interno scorsero un vecchio calvo, con la lunga barba bianca ed un volto color mattone, sul quale pareva stampato un ghigno sardonico. Nell’aria, una puzza che a loro pareva strana: non avevano mai sentito la puzza dello zolfo. Solo dopo qualche istante si accorsero di quel che stava facendo: mescolava, in un paiolo sopra il fuoco, qualcosa di incandescente e brillante, un mucchio di monete d’oro. Di tanto in tanto aggiungeva scaglie di ferro e chiodi. Chissà cosa sarebbe sortito da quella incredibile fusione! Non stettero a guardare oltre, però. Quando i loro occhi caddero sugli zoccoli che il vecchio portava al posto dei piedi, furono presi da un brivido freddo: quante volte avevano sentito che quello era il segno inequivocabile del diavolo! Corsero via, portando con sé le pecore ignare. Tornati ad Ornica, raccontarono spaventatissimo quanto avevano visto. La gente stentava a credere, ma qualcuno volle salire a vedere, il giorno dopo. Del vecchio nessuna traccia, del paiolo con l’oro ed il ferro neppure, ma dentro la brace era ancora viva, sotto la cenere. Il racconto era vero. Per questo la baita venne chiamata baita del Diavolo, per ammonire tutti coloro che vi fossero passati in futuro a non sostare nei suoi pressi.
Una seconda leggenda non parla proprio del diavolo, ma di persone tanto crudeli da sembrare una specie di incarnazione del maligno. Al tempo in cui erano in piena attività i forni fusori sopra Ornica, nei quali si ricavava dal minerale il ferro, il più attivo era gestito da forestieri. Non si sapeva bene chi fossero, né da dove venissero, ma la loro fama non era affatto buona. Ad Ornica, non si sa bene se per scherzo o seriamente, si raccontava che costoro, quando erano a corto di legna per alimentare il fuoco del forno, arrivavano a rapire qualche Ornichese sorpreso a passare da solo presso il forno e lo gettavano fra le fiamme per alimentarle. Riuscireste a pensare qualcosa di più atroce e diabolico? Per questo la valle venne denominata dell’Inferno.


La valle d'Inferno

La valle d'Inferno

Ma ad un certo punto anche la pazienza dei miti Ornichesi raggiunse il colmo. Mandarono una delegazione a Venezia, allora signora della Bergamasca, per cercare aiuto contro quella gente assassina, e l’ottennero. I delegati tornarono con un bel carico di archibugi e bombarde. Ammassarono le armi in un fortino allestito alla bell’e meglio in località Piazze, non lontano dal forno diabolico. Non appena videro segni di attività nel forno, fecero fuoco con tutta la potenza di cui disponevano. Il forno andò in mille pezzi, e dei diabolici forestieri non restò più alcuna traccia. L’unica traccia di quel tempo terribile fu il nome che la valle conservò, Valle d’Inferno, appunto.

ESCURSIONI IN VAL GEROLA

Copyright © 2003 - 2024 Massimo Dei Cas La riproduzione della pagina o di sue parti è consentita previa indicazione della fonte e dell'autore (Massimo Dei Cas, www.paesidivaltellina.it)

Copyright © 2003 - 2024 Massimo Dei Cas Designed by David Kohout