Fino alla metà circa del secolo scorso i numerosi paesi orobici di medio-alta quota, che nei secoli passati erano stati densamente popolati ed erano vissuti di intensi rapporti e commerci con il versante bergamasco delle Orobie, risultavano ancora abitati permanentemente. Poi vennero gli anni difficili della ricostruzione post-bellica e quelli euforici del boom economico: per gran parte di questi paesi fu l’inizio della fine, cioè del progressivo spopolamento che li rese sede di villeggiature estive e muti testimoni di una civiltà tramontata nel resto dell’anno. Ma non accadde ovunque così. Nelle grandi valli delle Orobie Occidentali diversi paesi hanno conservato, soprattutto per la facile accessibilità dal fondovalle, una discreta popolazione che vi risiede permanentemente. Una singolare e suggestiva traversata di 4 giorni, con partenza da Forcola ed arrivo a Morbegno, ci permette di toccarli tutti, passando per sentieri noti e meno noti, attraversando luoghi visitati e quasi ignoti. Questa traversata dei paesi orobici è dunque un’occasione per scovare scenari fuori mano, ma anche un tributo alla volontà umana di restare in montagna, per viverla, per conservarla.


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5. DA GEROLA ALTA A MORBEGNO

Punti di partenza ed arrivo
Tempo necessario
Dislivello in altezza
in m.
Difficoltà (T=turistica, E=escursionistica, EE=per escursionisti esperti)
Gerola-Pedesina-Rasura-Sacco-Morbegno
4 h
300
E
SINTESI. Lasciamo Gerola (m. 1050) uscendo dal paese lungo la strada provinciale della Val Gerola e scendendo verso la frazione Valle (m. 998). Qui imbocchiamo la stradina che se ne stacca sulla destra e scende alle case della frazione, lasciandola a sinistra per imboccare un largo sentiero che, restando a sinistra del vicino torrente Bitto, si immerge in una fitta pecceta e prosegue diritto nella discesa verso sud. Stiamo percorrendo la Via del Bitto, che seguiremo per il resto della discesa. Giunti nei pressi della Val di Pai, laterale occidentale della Val Gerola che vi si innesta poco più a valle, dobbiamo scendere lungo un fianco roccioso bel scalinato, con corde fisse che agevolano il cammino, reso insidioso per l'umidità che caratterizza l'ombroso cuore della valle. La discesa termina al ponte di Val di Pai, piccolo manufatto in legno. Sul lato opposto della valle saliamo guadagniando un centinaio di metri di quota. Dopo circa 600 metri il largo sentiero confluisce nella strada provinciale della Val Gerola, che seguiamo per un tratto, fino a giungere in vista delle prime case di Pedesina (m. 992). proseguiamo scendendo e lasciamo alle spalle le ultime case del paese. Dopo un accenno di curva a sinistra, però, cerchiamo sulla destra la partenza di un sentierino che scende a valle della strada, intercettando una strada sterrata che serve la centrale ENEL di Panigai. Tagliamo la strada sterrata e proseguiamo su una stradella che in breve passa per la cappelletta denominata il “Gisöl del Pich”, perché posta su uno spuntone di roccia. Proseguiamo sulla stradella, in graduale discesa, ed in breve siamo al ponte in pietra che permette di scavalcare il solco della parte inferiore della Valmala. Appena oltre il ponte, un'invitante panchina in legno. Proseguendo sulla stradella usciamo all'aperto appena a valle di Rasura (m. 762). La pista passa proprio sotto la bella chiesa parrocchiale di San Giacomo. Oltrepassata Rasura, in breve siamo al vecchio Mulino del Dosso, ora ristrutturato come museo etnografico e posto in prossimità della cascata della Füla, che possiamo osservare dal ponticello sul torrente della valle denominata “Il Fiume”. Un tratto ancora, e la stradella cede il posto ad una stradina asfaltata che sale ad intercettare la strada provinciale della Val Gerola in corrispondenza delle case basse di Sacco, frazione di Cosio Valtellino. Per proseguire la discesa verso Morbegno dobbiamo salire al sagrato della splendida chiesa di San Lorenzo (m. 700). Alle sue spalle troviamo il cimitero e la partenza di una stradella che scende ad intercettare la strada provinciale della Val Gerola, ormai in vista della bassa Valtellina. Appena al di là della carrozzabile la stradella riparte e dopo pochi tornanti ci porta alla piana di prati con le baite e le case della località Campione (m. 580), dove si trova la cappelletta dedicata all'eroina Bona Lombarda, che qui nacque. Proseguiamo diritti passando a sinistra dei prati e torniamo nel bosco, una bella selva di castagni, imboccando una mulattiera che passa per una fontana. Ad un bivio, stiamo a destra (la mulattiera sulla sinistra scende a Cosio Valtellino) e proseguiamo nella decisa dscesa. La mulattiera torna a farsi stradella e passa per la selva maloberti e per i ruderi di San Carlo (m. 385), circondati da castagni, prima di confluire nella strada provinciale della Val Gerola in corrispondenza della sua partenza, cioè alle case di Morbegno, dove la traversata dei paesi orobici termina. Non sarà difficile, utilizzando i mezzi pubblici o due automobili, tornare da Morbegno a Sirta.


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Il quinto ed ultimo giorno della traversata dei paesi orobici ridiscende dal Gerola Alta al fondovalle della bassa Valtellina, in corrispondeenza di Morbegno, toccando tutti e 4 i principali paesi permanentemente abitati della Val Gerola, cioè Gerola, Pedesina, Rasura e Cosio Valtellino, attraverso il territorio di quattro comuni, Gerola, Pedesina, rasura e Cosio Valtellino. La discesa sfrutta un'importante via storica che nei secoli passati veniva utilizzata per i transiti ed i commerci dalla Valsassina (quindi dal lago di Como) alla Valtellina. Si tratta della Via del Bitto.
Non esiste sentiero che assommi in sé tanti elementi di interesse, innanzitutto storico, ma poi naturalistico, panoramico ed escursionistico, quanti sono quelli legati alla Via del Bitto. Pochi ne conoscono l’esistenza, ma non si tratta di una nuova trovata legata allavalorizzazione di alcuni territori, o prodotti, o strutture turistiche, bensì di un itinerario millenario, che data dall’epoca pre-romana, e che ha rivestito, fino all’età moderna, una funzione assolutamente strategica nelle comunicazioni fra il mondo latino e quello retico-germanico. Insomma: è nata prima la Via del Bitto del formaggio Bitto. Infatti, è stata per molti secoli la via di comunicazione terrestre più diretta e breve fra la Valtellina ed il basso Lario, il che vuol dire, poi, con Milano. Il suo primato cominciò ad essere intaccato solo in epoca medievale, con la costruzione di una strada sulla riva orientale del Lario, poi ampliata nel secolo XIX. Ma al tempo dei Romani questi temevano una calata dei barbari proprio da qui (e fortificarono diversi luoghi strategici della Valsassina), ed è a loro che risale la definizione di questo asse come “via gentium”, cioè via delle genti. Parrebbe strano, visto che si dipana nel cuore delle Orobie occidentali, fra Valsassina (o, più precisamente fra Val Troggia, Val Biandino ed alta Val Varrone) e Val Gerola, eppure è così.


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Qualche dato generale aiuta a comprendere l’importanza storica di questa direttrice. La via parte da Introbio, nel cuore della Valsassina, ma facilmente raggiungibile da Lecco (che dista circa 16 chilometri). Si sviluppa per 11,5 km da Introbio alla bocchetta di Trona ("buchéta de Truna", m. 2092, al confine fra le province di Bergamo e Sondrio), con un dislivello in salita di circa 1500 metri, e per 20 km dalla bocchetta di Trona a Morbegno, con un dislivello in discesa di circa 1900 metri effettivi (1800 sulla carta). In totale, 31,5 km circa, che, aggiunti ai 16 da Lecco ad Introbio, portano la distanza fra Lecco e Morbegno a 47,5 km. Si obietterà: lo sviluppo limitato è compensato dal territorio montano, il cui attraversamento è notoriamente legato ad asperità, passaggi difficili, e così via. Non è vero. Innanzitutto, fino ad epoche non lontanissime, il transito in montagna risultava spesso ùsicuro e salubre rispetto a quello in pianura.
In secondo luogo, la via rappresenta non solo il più breve, ma anche uno dei più agevoli fra i molteplici valichi della catena orobica, in quanto le bocchette della Cazza
(termine dialettale che sta per "mestolo") e di Trona, cioè i due punti salienti, si raggiungono facilmente, mentre la discesa dalla bocchetta di Trona alla piana della bassa Valtellina non è più difficile di quella che avviene da altre valli orobiche. Prova ne è che il cartello che troviamo ad Introbio, laddove la mulattiera comincia la sua salita in val Troggia, dà la bocchetta di Trona a 5 ore e Morbegno a 10 ore. Indicazione un po’ ottimistica, per la verità, ma non irrealistica. Diciamo che sarebbe opportuno fare la media fra queste valutazioni e quelle di un cippo più antico, anch’esso visibile ad Introbio, che dà la bocchetta di Trona a 10 ore e un quarto e Morbegno a 15 ore.
Lasciamo, dunque, Gerola (m. 1050) uscendo dal paese lungo la strada provinciale della Val Gerola e scendendo verso la frazione Valle (m. 998). Qui imbocchiamo la stradina che se ne stacca sulla destra e scende alle case della frazione, lasciandola a sinistra per imboccare un largo sentiero che, restando a sinistra del vicino torrente Bitto, si immerge in una fitta pecceta e prosegue diritto nella discesa verso sud. Stiamo percorrendo la Via del Bitto, che seguiremo per il resto della discesa.
Giunti nei pressi della Val di Pai, laterale occidentale della Val Gerola che vi si innesta poco più a valle, dobbiamo scendere lungo un fianco roccioso bel scalinato, con corde fisse che agevolano il cammino, reso insidioso per l'umidità che caratterizza l'ombroso cuore della valle. La discesa termina al ponte di Val di Pai, piccolo manufatto in legno che non soffre il confronto con il nuovo ardito ponte costruito sulla medesima valle più in alto, per servire la strada provinciale. Abbiamo percorso circa 1,3 km dalla frazione di Valle e sotto i nostri piedi rumoreggia il Bitto della Val di Pai: qui ogni torrente che confluisce nel solco principale della valle è un Bitto. Sul lato opposto della valle saliamo guadagniando un centinaio di metri di quota. Dopo circa 600 metri il largo sentiero confluisce nella strada provinciale della Val Gerola, in corrispondenza di un cartello che segnala, nella direzione dalla quale proveniamo. la partenza di una nuova sezione della Via del Bitto, ristrutturata ed attrezzata dalla Comunità Montana Valtellina di Morbegno nel 2001, nell’ambito del progetto Italo-svizzero denominato “Strade di Pietra”.
Ora dobbiamo seguire la carrozzabile per un tratto, fino a giungere in vista delle prime case di Pedesina (m. 992), il paese orobico che per lungo tempo vantava il primato di comune con il minro numero di abitanti in Italia. Un approfondimento storico ci porta a conoscerlo meglio.


La chiesa di S. Antonio a Pedesina

Una scritta ben visibile su un muraglione in cemento, all'ingresso meridionale del paese, ci regala una promettente accoglienza: “Pedesina – Località climatica – 992 metri”. In passato, infatti, una significativa presenza turistica giustificò l'apertura di due alberghi, l'antico albergo Pedesina, che vediamo sulla sinistra della provinciale, e l'albergo Belvedere, che domina il primo tratto di strada che sale alle case del paese.
Diversa è la situazione oggi: Pedesina detiene un singolare primato, che gli viene però conteso da Morterone, quello del comune con minor numero di abitanti in Italia. Nel 2005, dopo essere stato spodestato al censimento da Morterone, ha riconquistato il primato, battendo di due unità il Comune rivale (37 contro, si fa per dire, 39).

La storia di Pedesina inizia nel cuore del medio-evo: la sua comunità appartenne, insieme a quelle di Delebio, Cosio Valtellino, Rasura, Gerola, Dubino, Mantello, Cino, Cercino, Traona e Mello, alla pieve di Olonio, che, insieme alla pieve di Ardenno, costituì poi il terziere inferiore della Valtellina. La più antica notizia di Pedesina “in comune di Rasura” è rintracciabile in un documento trecentesco, nel quale si attesta che i Vicedomini di Domofole, la potente famiglia feudale che dominava il versante retico del terziere (l’attuale Costiera dei Cech), erano stati investiti dei beni acquistati dal monastero di Piona il 28 marzo 1244, e li avevano, a loro volta, ceduti a livello ai fratelli Orlando, Giovani e Vitale, figli di ser Gervaso di Taleggio. Dal documento si evince che l’origine del paese è legata all’insediamento in Val Gerola di famiglie che provenivano dalla Val Taleggio.
Nei documenti successivi il toponimo “Pedesina” si alterna a quello di “Pedexina”. Nel secolo XIV, al tempo della dominazione milanese dei Visconti in Valtellina, fra i rappresentanti delle comunità della squadra di Morbegno, eletti il 28 settembre figura tal Giacomino figlio del fu Martino, di Pedesina. Il paese apparteneva, allora, al comune di Rasura, dal quale, però, si staccò nel 1483, quando già si delinea una sua più precisa fisionomia e compaiono i primi cognomi (Tarabini e Fomasi). La separazione da Rasura comportò anche la necessità di dividere con atto notarile i gioielli di famiglia, per così dire, cioè gli alpeggi di Culino (Rasura) e Combana (Pedesina): la definizione del confine fra i due comuni nella parte alta della Valmala non era priva di risvolti economici, perché si trattava di assegnare all'uno o all'altro porzioni di pregiatissimo alpeggio. Solo il 20 agosto del 1488, cioè dopo 5 anni, la vertenza venne chiusa da un arbitrato del notaio Giovanni Maria Foppa di Bema.
Più di mezzo secolo prima, nel 1424, erano terminati i lavori della costruzione della chiesa dedicata a S. Antonio e consacrata il 30 novembre di quell’anno, alla presenza dei sacerdoti beneficiari di Cosio Valtellino, Rasura e Gerola (ci vollero però più di due secoli perché la chiesa diventasse parrocchiale, nel 1634). La chiesa ed il suo sagrato panoramico sono, ancora oggi, il biglietto da visita più caratteristico del paese: la possiamo raggiungere per una stradina che parte un po' oltre lo svincolo della strada che sale al paese. Accanto ad essa la casa parrocchiale che riporta, sulla facciata, protetto da una teca, un dipinto quattrocentesco o cinquecentesco di Madonna con Bambino affiancata da San Rocco (alla nostra sinistra) e San Sebastiano.

Nel 1589, Pedesina venne visitata dal celebre vescovo di Como Feliciano Ninguarda, che vi conta 60 fuochi (una generazione dopo, nel 1624, si registravano a Pedesina 226 abitanti). Ecco, nel dettaglio, la relazione del Ninguarda (trad. dal latino a cura di don Lino Varischetti e Nando Cecini, pubblicata nel 1963 a cura del Credito Valtellinese): "Salendo (sc. oltre Rasura) per un miglio e mezzo si incontra un altro paese, Pedesina, con sessanta famiglie tutte cattoliche. La chiesa parrocchiale è dedicata a S. Antonio Abate e la presiede, come sostituto, fr. Girardo Barnarigia da Modena dell’ordine dei minori conventuali della provincia milanese, con esplicito permesso dei suoi superiori. Anche questa parrocchiale di Pedesina era soggetta a quella di Cosio Valtellino come Rasura e fu separata con gli stessi obblighi” (cfr. quel che riferisce del parroco di Rasura: “è tenuto nelle solennità della consacrazione e della festa della chiesa di S. Martino di Cosio Valtellino ad essere presente ai due vespri e alla messa solenne. Il curato di Cosio Valtellino, però, a suo piacimento, potrà partecipare o funzionare alle sacre celebrazioni nelle feste della consacrazione e del patrono della chiesa di Rasura; qualora intervenga, ogni famiglia della comunità di Rasura sarà tenuta a dare al curato di Cosio Valtellino due soldi per ogni festa in riconoscimento dell'antica sudditanza”).
Anche il diplomatico e uomo d'armi Giovanni Guler von Weineck, governatore per la Lega Grigia della Valtellina nel 1587-88, nella sua opera “Rhaetia” (Zurigo, 1616), fa menzione di Pedesina: “Proseguendo lungo il monte, sul quale sta Rasura, dentro per la valle, s’incontra il grosso villaggio di Pedesina; molti suoi abitanti esercitano vari mestieri a Venezia. Da Pedesina un sentiero valica il monte, scendendo nella Valsassina, che appartiene al ducato di Milano”. Il testo fa riferimento alla Bocchetta di Stavello che, sulla testata della Val di Pai, appena a sud del monte Rotondo, congiunge la Val Gerola alla Val di Fràina, oggi in provincia di Lecco.

Un quadro sintetico di Pedesina nella prima metà del Seicento è offerto dal prezioso manoscritto di don Giovanni Tuana (1589-1636, grosottino, parroco di Sernio e di Mazzo), intitolato “De rebus Vallistellinae” (Delle cose di Valtellina), databile probabilmente alla prima metà degli anni trenta del Seicento (edito nel 1998, per la Società Storica Valtellinese, a cura di Tarcisio Salice, con traduzione delle parti in latino di don Abramo Levi). Vi leggiamo: La Valle del Bitto, così chiamata dal fiume qual passa per quella, è molto longa, più di 15 miglia, dov'è strada commodissima per andare nel stato de Venetiani, tanto a piedi quanto a cavallo. Ha sette parocchie, duoi nel fianco diritto, quatro nel fianco sinistro, et una in un monticello che si leva tra l'un e l'altro fianco… Nel fianco sinistro… la seconda parocchia dista da Gerola duoi miglia, chiamata Pedesina; ha 70 fameglie et la chiesa è viceparochiale di S. Antonio sottoposta a Cosio Valtellino, assai ben instrutta et ornata.. Da Pedesina v'è strada per la quale si va commodamente in Valle Sassina del stato di Milano”.
Con un balzo avanti di qualche secolo, ecco infine, come Ercole Bassi, in “La Valtellina – Guida illustrata”, nel 1928 (V ed.), presenta il paese: Più oltre trovasi Pedesina (m. 772 - ab. 232 - pen­sione Belvedere), ove vedesi un orrido pittoresco; è patria dei fratelli Cascina, buoni pittori del 700, che dipinsero in non poche chiese della Bassa Valtellina. Nel portico di casa Carolo vi è un bell'affresco di Simone d'Averara, con M. V., il B., S. Rocco e S. Sebastiano. Nella sala della casa parr. è dipinta una soave M. col B., del 1564, opera di C. Valorsa di Grosio, del cui valore si dirà al N. 74. Nella parr., in una cappella a destra vi è una Cena, opera pregevole del 1649 di Ant. Tarabini di Pedesina, che poi andò frate a Venezia, ove pure dipinse, morendo poi in patria. In un altare di fronte vi sono buoni intagli e statue. Sopra altro altare vi è un vetro dipinto del 600 con M. V. e il B. Sull'altar maggiore vi sono due buone tele, una del 1686 con Gesù Cristo giovane, l'altra del 1700 con S. Rocco. Una discreta tela .del 600 con S. Filippo Neri trovasi in sagrestia.”
Riprendiamo il cammino lungo la Via del Bitto. Dopo una doverosa guida al paese, in buona parte a monte della strada, ed alla chiesa parrocchiale di S. Antonio, quasi sospesa sul ciglio di ripidissimo prati (qui tutto sembra sfidare la legge di gravità), ridiscendiamo alla strada provinciale, proseguiamo scendendo e lasciamo alle spalle le ultime case del paese. Dopo un accenno di curva a sinistra, però, cerchiamo sulla destra la partenza di un sentierino che scende a valle della strada, intercettando una strada sterrata che serve la centrale ENEL di Panigai.
Tagliamo la strada sterrata e proseguiamo su una stradella che in breve passa per la cappelletta denominata il “Gisöl del Pich”, perché posta su uno spuntone di roccia. La cappelletta è dedicata alla “Madonna del Picch” ed è stata restaurata dalla Pro-Loco di rasura nel 2002, con una lodevole iniziativa che restituisce alla sua bellezza originaria questa testimonianza della devozione popolare. E’ interessante osservare come cappellette come questa si trovino con regolarità quasi costante nei pressi di luoghi dirupati o nei tratti più solitari dei sentieri, come rassicurante protezione per il viandante.
Proseguiamo sulla stradella, in graduale discesa, ed in breve siamo al ponte in pietra che permette di scavalcare il solco della parte inferiore della Valmala ("val màla", detta anche "val del pich"), la cui denominazione si connette con l’aspetto selvaggio e dirupato che assume proprio in questa parte. Appena oltre il ponte, un'invitante panchina in legno.
Proseguendo sulla stradella usciamo all'aperto appena a valle di Rasura (m. 762, a 9 km da Morbegno, per chi percorre la strada provinciale). La pista passa proprio sotto la bella chiesa parrocchiale di san Giacomo, consacrata nel 1610. Saliamo al sagrato della chiesa per gustare l'eccellente panorama sul versante retico, dove spicca l’inconfondibile profilo del monte Disgrazia.
Anche qui non possiamo resistere alla tentazione di un'immersione nella storia.
Il paese, citato in un documento del 1244, sul finire del Cinquecento, nel 1589 riceve la visita del vescovo di Como Feliciano Ninguarda che vi registra 45 fuochi (250-300 abitanti), mentre nel 1624 gli abitanti salgono a 342. Ecco, nel dettaglio, la relazione del Ninguarda: "Sopra Sacco, in linea retta, risalendo per un miglio al centro la valle del Bitto si trova un altro paese, Rasura, con 45 famiglie tutte cattoliche. La chiesa parrocchiale è dedicata a S. Giacomo Apostolo; ne è rettore il sacerdote Domenico de Brochi, nativo del posto. Anche la chiesa parrocchiale di Rasura era incorporata alla parrocchiale di Cosio Valtellino, ma molti anni fa fu da essa separata, cosicchè il curato diRasura è tenuto nelle solennità della consacrazione e della festa della chiesa di S. Martino di Cosio Valtellino ad essere presente ai due vespri e alla messa solenne. Il curato di Cosio Valtellino, però, a suo piacimento, potrà partecipare o funzionare alle sacre celebrazioni nelle feste della consacrazione e del patrono della chiesa di Rasura; uqalora intervenga, ogni famiglia della comunità di Rasura sarà tenuta a dare al curato di Cosio Valtellino due soldi per ogni festa in riconoscimento dell'antica sudditanza. Discendendo verso Sacco, a mezzo miglio si trova la frazione di melarolo con 20 famiglie cattoliche; la chiesa è dedicata all'Assunzione di S. Maria. La frazione è incorporata alla chiesa parrocchiale di Rasura. Discendendo per altra strada verso Cosio Valtellino, non molto lontano, vi è un'altra frazione, il Dosso, con 14 famiglie tutte cattoliche. Anch'essa è sottomessa alla parrocchia di Rasura. Non lontano da Rasura vi è una chiesa campestre dedicata a S. Rocco, con una solida chiusura." (trad. dal latino a cura di don Lino Varischetti e Nando Cecini, pubblicata nel 1963 a cura del Credito Valtellinese).


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Nel medesimo periodo il diplomatico e uomo d'armi Giovanni Guler von Weineck, governatore per la Lega Grigia della Valtellina nel 1587-88, tracciò, nella sua opera “Rhaetia” (Zurigo, 1616), il seguente quadro: “Da Morbegno si stende in direzione di mezzogiorno, fra alti monti, fino alle vette del confine veneto, una lunga vallata, ben disposta e popolosa, la quale dal fiume Bitto che la percorre viene denominata valle del Bitto. Essa è così larga e così lunga che comprende ben sei comuni; la popolazione è bella, robusta, di florido aspetto, coraggiosa e ben costumata. Quivi non prospera la vite; ma tuttavia gli abitanti godono una grande agiatezza, perché traggono grossi guadagni dall’allevamento di bestiame, dalla lavorazione dei panni di lana, nonché da svariati mestieri che essi esercitano in diversi luoghi d’Italia….Dopo Sacco, più addentro nella vallata e sul medesimo versante, s’incontra il comune di Rasura, dove pure si lavorano molti panni di lana; la famiglia più cospicua del luogo è quella degli Amici, che si dicono pure Amigazzi (Migazzi). Più in alto sorge una frazione detta Mellarolo.”
Il periodo più nero della storia del paese venne però qualche decennio dopo, in corrispondenza della più dura epidemia di peste. Cirillo Ruffoni, in "Rasura, tra passato e futuro" (Bellevite editore, a cura del comune di Rasura), scrive: "Poi, improvvisamente, nel 1636 succede il disastro. Anche qui, fino alla metà di luglio va tutto bene, con soli tre morti. Il 15 luglio si registra il primo morto di peste: un uomo di 36 anni, poi è tutto un crescendo, con 4 morti in luglio, 18 in agosto, 49 in settembre (con picchi massimi di 6 morti il 25 e 5 morti rispettivamente il 17 e il 28), 30 in ottobre e 10 in novembre. Allo scoppio del contagio le famiglie che possono si isolano nelle loro stalle più lontane, in caslèra, al Dos de Gràa, all'Aquàl, alla Foppa, alla Làres, ma anche qui vengono implacabilmente raggiunte dal morbo. A questo punto saltano tutti i controlli e le quarantene, vengono meno i rapporti parentali, non si fanno più funerali, ma i cadaveri vengono sepolti subito, nel luogo stesso della morte o nelle selve. Soltanto ad un certo punto si riesce ad allestire un lazzaretto all'Era, dove poi muore e viene sepolta la maggior parte delle persone. In mezzo a questo sconquasso il curato Bartolomeo Maxenti corre da ogni parte per garantire a tutti almeno il conforto dei sacramenti e, se non riesce a dare ai suoi fedeli un cristiano funerale, si preoccupa di registrare con precisione il nome di tutti gli scomparsi... Al termine di questo anno il bilancio è impressionante: 117 morti, di cui 108 portati via dalla peste. Essi rappresentano quasi la metà della popolazione della parrocchia; per il solo comune di Rasura la percentuale è ancora più alta, se teniamo conto che a Mellarolo e al Dosso la peste ha infuriato molto meno."

Qualche secolo più tardi, Ercole Bassi, in “La Valtellina – Guida illustrata”, nel 1928 (V ed.), così presenta il paese: “Da Sacco la via prosegue per Rasúra (m. 776 - ab. 407 - P. da Morbegno km. 6 - latt. soc. - assic. best. - luce elett. - circolo - piccole industrie tessili per panni e tele nostrane - cassa rurale). Sulla strada si trovano due dipinti del Gavazzeni, uno in una cappella, l'altro all'esterno di una casa. Sulla cantoria dell'organo della parrocchiale sono dipinti graziosi angioletti. I banchi del coro, del 1680, sono intagliati con statuette.”
Oggi il paese conserva vivo l'amore per la tradizione ed il radicamento ad una terra che propone, sul versante a monte, splendidi itinerari escursionistici, fra cui spiccano la salita al lago di Culino ed alla vicina panoramicissima cima della Rosetta.
Ridiscesi alla stradella appena sotto la chiesa parrocchiale, proseguiamo nella graduale discesa.
In breve siamo al vecchio Mulino del Dosso, ora ristrutturato come museo etnografico da Serafino Vaninetti (di qui la denominazione di museo Vanseraf) e posto in prossimità della cascata della Füla, che possiamo osservare dal ponticello sul torrente della valle denominata “Il Fiume”. Un tratto ancora, e la stradella cede il posto ad una stradina asfaltata che sale ad intercettare la strada provinciale della Val Gerola in corrispondenza delle case basse di Sacco, frazione di Cosio Valtellino. Anche qui la storia propone motivi di assoluto interesse.


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L’origine del paese risale ai secoli del Medio-Evo, anche per afflusso di popolazione proveniente dal versante orobico bergamasco. È però apartire dal Trecento che inizia uno sviluppo favorito dal parziale abbandono del fondovalle valtellinese. L’Orsini, nella “Storia di Morbegno” (Sondrio, 1959), fa coincidere l’inizio della fortuna del paese con il processo di spopolamento di Cosio Valtellino, sul fondovalle: “Lo stesso avvenne per Cosio Valtellino, i cui abitanti si trasferirono pure sul monte: a Roncale, a Piantina, a Campione ed a Sacco”. Allo spopolamento concorsero sicuramente, oltre alla sconfitta politica dei Vicedomini, il cui castello fu raso al suolo dai rivali guelfi Vitani, nel 1304, anche fattori di ordine climatico, che cominciarono a farsi sentire già nell’alto Medio-Evo. Scrive, in proposito, sempre l’Orsini: “Un’analoga tradizione… ci dice che il Bitto scendeva un giorno nella pianura fra Regoledo e Cosio Valtellino, dando a questa salubrità e frescura. Lo studio attento delle stratificazioni geologiche potrebbe confermare questa tradizione, spiegarci il fatto e anche datarlo con larga approssimazione. Comunque già nell’alto Medioevo il Bitto si apriva un nuovo alveo, profondamente incassato nella forra selvaggia che si inabissa fra Bema e Sacco… Il piano di S. Martino divenne paludoso e malarico, e così pure quello di Cosio Valtellino. Fu allora che sulla falda montana di Cosio Valtellino sorsero le attuali frazioni di Roncale, Piantina e Sacco…” (op. cit.).
La celebre “camera picta” di casa Vaninetti, in contrada Pirondini, fatta affrescare nel 1464 da Augustinus de Zugnonibus (ora museo), testimonia del grado di civiltà e della floridezza della Sacco quattrocentesca. Vi si trova un dipinto dedicato al mito dell’homo salvàdego, raffigurato, come nello stemma della Lega delle Dieci Giurisdizioni (che faceva parte della Lega Grigia), ricoperto di folto pelo e con un grande bastone fra le mani. Una scritta ne illustra l’indole: “E sonto un homo selvadego per natura – chi me offende ge fo pagura”. La paura, dunque, come unica punizione per chi manca di rispetto a questo essere, che rimanda al mito di un’originaria alleanza fra uomo e natura. In quest’ottica l’homo salvadego diventa non solo espressione della bontà originaria della natura e di quegli esseri che sanno vivere in armonia con essa, ma anche una sorta di specchio morale che ricorda all’uomo quanto sia innaturale l’offesa, cioè la gratuita forma di violenza. L’homo salvadego appare, dunque, come una delle tante espressioni del "buon selvaggio". Sbaglieremmo, però, ad immaginare questo essere come primitivo: o meglio, lo è solo nel senso etimologico di essere stato il primo abitatore dei monti, non nel senso di essere rozzo e sprovveduto. Fu proprio lui, anzi, ad insegnare ai colonizzatori quelle arti che permisero loro di sopravvivere alla durezza dell’ambiente montano, vale a dire la coltivazione dei campi, l’allevamento degli animali, l’apicoltura, l’arte casearia, l’arte dell’estrazione e della lavorazione dei metalli. Fu sempre lui a mostrare un costume morale che appare tutt’altro che incivile: non si mostrò ostile di fronte all’invadenza dei nuovi venuti, preferì ritirarsi, discretamente, nelle valli più nascoste e nei luoghi più impervi ed inaccessibili.
Ma non è solo la “camera picta” a parlare dei fasti della Sacco rinascimentale: sono altrettanto eloquenti i numerosi affreschi quattrocenteschi e cinquecenteschi negli interni e sulle facciate di diverse dimore. Fasti legati al clima mite (la conca di Sacco è protetta dai venti settentrionali, ha una favorevole esposizione ad est ed è posta ad una quota ideale, che tempera i rigori invernali e la calura estiva) ed alla vocazione mercantile, favorita dalla posizione strategica del borgo, nei cui pressi passava l’antichissima Via del Bitto, importante asse di comunicazione fra Valsassina e Valtellina. Sono attestati, già nel Quattrocento, importanti rapporti commerciali fra Sacco e le località di Averara  e Premana, sul versante opposto del crinale orobico: nel 1464, anno in cui fu dipinta la già citata “camera picta”, era rettore della chiesa di S. Lorenzo di Sacco il sacerdote Cristoforo di Averara. Sempre del medesimo paese era il pittore Simone di Averara, cui si deve il pregevole dipinto che raffigura S. Martino (1508), sulla parete di una casa di Sacco.
Dal punto di vista religioso Sacco di Sopra fu, dopo l’anno Mille, inclusa nella pieve di Olonio, mentre Sacco di Sotto, dipendente da S. Martino di Morbegno, rientrava nella pieve di Ardenno; alle due contrade corrisposero forse, dal secolo XV e per un certo periodo, altrettante parrocchie, dedicate a San Lorenzo e a Sant'Antonio, anche se alcuni dubitano che Sacco di Sotto sia mai stata costituita in parrocchia. La chiesa di San Lorenzo di Sacco di Sopra cominciò ad avere un proprio curato nel 1428, staccandosi dalla parrocchia di Cosio Valtellino dalla quale dipendeva; a far data dal 21 marzo 1458 anche la chiesa di Sant'Antonio di Sacco di Sotto si separava da Morbegno.
La posizione felice non risparmiò, però, Sacco dai flagelli che colpirono la Valtellina nell’età moderna, in special modo all’inizio del Cinquecento. Nel 1513, cioè l’anno successivo rispetto all’inizio della dominazione delle Tre Leghe Grigie sulla Valtellina, fu un’epidemia di peste a colpire duramente. Qualche anno più tardi, nel 1525, ai tempi delle azioni militari intraprese da Gian Giacomo Medici, detto il Meneghino, per riconquistare la Valtellina, da poco passata sotto la signoria delle Tre Leghe Grigie, Sacco fu saccheggiata dalle truppe dei Grigioni, perché aveva parteggiato per le truppe del Duca di Milano, che avevano tentato di riprendersi la Valtellina calando dalla Val Gerola e dalla Valmadre: fu forse questo episodio all’origine del suo nome, anche se esso può rimandare al significato di “insenatura senza via d’uscita”. Sempre a Sacco venne combattuta l’ultima battaglia che segnò la definitiva sconfitta delle mire del Meneghino: il suo capitano Marco Grasso, che veniva dalla Valsassina ed era sceso dalla Val Gerola con 500 archibugieri, venne qui sconfitto dai Grigioni. Il dominio delle Tre Leghe non subì, per il resto del secolo, altre minacce. Fu, quello, il secolo nel quale cominciò un significativo flusso migratorio, che proseguì anche nel secolo successivo e diede un contributo significativo all’economia del paese, verso Genova, Livorno e Napoli.
Nel 1589 il celebre vescovo di Como, di origine morbegnese, Feliciano Ninguarda, visitò la Valtellina e scrisse, nella sua relazione, di Sacco: “Dal suburbio di Morbegno, oltre il ponte del Bitto, c’è la strada che conduce nella valle del Bitto, lunga più di otto miglia e sempre in salita; nella valle ci sono quattro paesi con diverse frazioni. Il primo, tre miglia sopra il ponte, è Sacco, con centocinquanta famiglie tutte cattoliche. E’ diviso in due parti, Sacco di sopra e Sacco di sotto; l’inferiore è sottoposto alla chiesa plebana di Morbegno di cui si dirà a suo tempo, e non a quella di Olonio; nel superiore, dipendente dalla chiesa di Olonio, c’è la bella chiesa parrocchiale dedicata a S. Lorenzo, il cui rettore è il sacerdote Alfonso Pirondino di Morbegno. Questa chiesa parrocchiale fu unita in antico alla chiesa di S. Martino di Cosio Valtellino; attualmente è disgiunta e separata, a condizione che il curato di Cosio Valtellino, in memoria dell’antica unione, raccolga e riceva ogni anno le primizie della comunità di Sacco e come controparte in determinati giorni dell’anno lui o un altro celebrino la messa nella loro chiesa. Nella stessa parrocchia vi è un altare dotato di un vistoso beneficio, dedicato alla beatissima Vergine Maria, che è posseduto dal sacerdote milanese Pietro de Carato. Alla periferia vi è una chiesa alpina dedicata a S. Bernardo, tenuta sempre chiusa ad eccezione della festa del santo. In quell’occasione si celebra la messa.”
Dalla sua relazione ricaviamo che a Cosio Valtellino si contavano allora 40 fuochi (200-240 abitanti; per avere un dato comparativo, a Traona ve n’erano 140, a Campovico e Cermeledo 45), a Piagno 15 (60-75 abitanti), a Regoledo 20 (80-100 abitanti), a Sacco 150 (600-750 abitanti), a Melirolo (Mellarolo) 20 (80-100 abitanti), a Vallate 5 (20-25 abitanti), a Piazzola 5 (20-25 abitanti) ed a Castello San Giorgio, infine, 1 (5-6 abitanti). Nella sola Sacco, dunque (peraltro divisa in Sacco di sopra, l’attuale Sacco, e di sotto, l’attuale zona di Campione), vivevano molte più famiglie di quante ve ne fossero in tutte le altre località sommate (150 famiglie contro 106).
Un rapporto analogo si conferma qualche decennio dopo, nel 1624: a Sacco vivevano 940 abitanti (più del triplo rispetto all’attuale popolazione), a Cosio Valtellino 530. Nella sua opera “Rhaetia”, pubblicata a Zurigo nel 1616, Giovanni Guler von Weineck, governatore della Valtellina per le Tre Leghe Grigie nel 1587-88, così scrive di Sacco: “Dalla parte opposta, sulla riva sinistra del fiume, all’orlo quasi della vallata e poco sopra il piccolo villaggio di Campione, quasi a metà della montagna che sovrasta Morbegno, sorge l’antico e grande villaggio di Sacco che forma un comune particolare; si divide in Sacco superiore e in sacco inferiore e produce una gran quantità di panni di lana. Ivi risiedono i Bonini, gli Zugnoni, i Filippini (i quali fioriscono pure a Morbegno) e i Bellotti: tutte famiglie assai ragguardevoli”.
Di lì a poco anche Sacco ebbe a subire la più terribile pestilenza dell’età moderna, che si scatenò in Valtellina nel 1629-31 a seguito dell’alloggiamento forzato per alcuni mesi dei lanzichenecchi che scendevano dalla Valchiavenna per partecipare alla guerra di successione del Ducato di Mantova: l’epidemia si portò via quasi metà dell’intera popolazione (secondo alcuni storici, addirittura quasi tre quarti: la popolazione sarebbe scesa da 150.000 a poco meno di 40.000 abitanti).
Un quadro sintetico di Sacco nella prima metà del Seicento è offerto dal prezioso manoscritto di don Giovanni Tuana (1589-1636, grosottino, parroco di Sernio e di Mazzo), intitolato “De rebus Vallistellinae” (Delle cose di Valtellina), databile probabilmente alla prima metà degli anni trenta del Seicento (edito nel 1998, per la Società Storica Valtellinese, a cura di Tarcisio Salice, con traduzione delle parti in latino di don Abramo Levi). Vi leggiamo: La Valle del Bitto, così chiamata dal fiume qual passa per quella, è molto longa, più di 15 miglia, dov'è strada commodissima per andare nel stato de Venetiani, tanto a piedi quanto a cavallo. Ha sette parocchie, duoi nel fianco diritto, quatro nel fianco sinistro, et una in un monticello che si leva tra l'un e l'altro fianco… Nel fianco sinistro… la quarta è lontana da Rasura duoi miglia et 2 miglia vicina a Morbegno, chiamata Sacco, quale si divide in Sacco di sopra et Sacco di sotto; fa 200 fameglie. Ha la chiesa viceparochiale di S. Lorenzo, sotto­posta a Cosio Valtellino. Questa è incredibilmente adornata d'ogni sorte d'argentarie, imagini nobilisime, organo, paramenti pretiosi, di più di quella che pare che possi promettere un monte. In questo luoco troverai prati pieni di narcisi. Tutta questa valle è ricca, perché abbonda di grassine più che ogn' altro luoco della valle; di grassine, di castagne, di grano et priva solo di vino. In questa s'attende a far panni di lana, quali si vendono non solo nella valle, ma se ne portano ancora nell'Italia. Molti hanno trafichi nel regno di Napoli, nella Sicilia, nel stato de Venetiani, con il che arrichiscono di dinari le sue contrate. Sono l' habitatori molto civili, acuti, ben complessionati.”
Ecco, infine, come, quache secolo più tardi, Ercole Bassi, in “La Valtellina – Guida illustrata”, nel 1928 (V ed.), presenta il paese: “Da Morbegno a Sacco, Pedesína, Rasura, Geróla. — Da Morbegno una recente rotabile sale a larghi risvolti a sin. del fiume Bitto e giunge a Sacco, fraz. del comune di Cósio (m. 270 - cassa rur.). Sacco possiede diversi buoni dipinti nonchè le iscrizioni: Battactinus et Simon pinxerunt die 18 Madij 1464 - Hoc opus fecit fieri Augustinus de Zugnonibus. nomine Actius die XVIII Madij 1464. Presso la chiesa, all'esterno della casa già Cornaggia, la Carità di S. Martino di Simone Bascheni d'Averara (Bergamo) con la data del 1508. Sotto questo una M. col Bamb. del 1517 di Andrea de Passeris di Torno. Nel piazzale della chiesa, lato est, una ingenua e commovente Pietà del 1528, con lo stemma dei Visconti. Sopra la chiesa, in contrada Pirondini, in una casa degli Eredi Vaninetti, un locale al primo piano, ora fienile, è tutto dipinto in giro di interessanti affreschi colla data del 1464. Sull'arco dell'ingresso vedesi una S. Trinità con l'iscrizione: «Sic pax infranti sit in tua gratia guam manenti». È ben conservata una Deposizione. Sulla parete a s. è dipinta una figura in piedi in atto di tirar l'arco; su quella a d. un uomo nudo con clava. Si leggono in giro molte sentenze e proverbi.


Sacco

Più avanti, nella casa di A. Cornaggia fu Pietro, altro bell'affresco del 500 colla M. e il E. La bella casa parrocchiale contiene molte tele con ritratti di parroci. Interessante un ritratto del 1556, quelli di Bona Lombarda, di suo marito e di suo padre. La parrocchiale e l'oratorio contengono molte tele di pregio, arredi, croci d'argento provenienti da Napoli, dono degli abitanti che emigravano sia colà, sia a Genova, sia a Livorno. Fra i dipinti: una Discesa dello Spirito Santo del 1590, in una cappella a destra, ed una tela grande con la Carità di S. Martino, mandata da Napoli nel 1628. Notevoli due paliotti in marmo a bassorilievo, una con la M. ed il B., del 500, provenienti da Roma, l'altro con S. Lorenzo, nonchè i marmi preziosi degli altari. Si trova una gran tela sopra l'altare con la M., il B. e altre figure, spedite da Napoli nel 1613 con altri quadri.”
Per proseguire la discesa verso Morbegno dobbiamo salire al sagrato della splendida chiesa di San Lorenzo. Alle sue spalle troviamo il cimitero e la partenza di una stradella che scende ad intercettare la strada provinciale della Val Gerola, ormai in vista della bassa Valtellina. Appena al di là della carrozzabile la stradella riparte e dopo pochi tornanti ci porta alla piana di prati con le baite e le case della località Campione (m. 580), che, alla bellezza ed amenità dello scenario naturale, unisce un motivo di interesse storico: qui nacque, infatti, nel 1417, la celebre figura di Bona Lombarda, eroina della storia del quattrocento italiano. Si trattava di una contadina di cui si innamorò il capitano Pietro Brunoro, che militava nell’esercito del Ducato di Milano (allora signoria dei Visconti), guidato dal capitano di ventura Niccolò Piccinino e dal valtellinese Stefano Quadrio, esercito che aveva appena sconfitto quello veneziano nella battaglia di Delebio (1432). I due si sposarono nella chiesa di Sacco e la moglie seguì poi il capitano, di origine parmense, nelle sue peregrinazioni legate alla compagnia di ventura per la quale militava. Fin qui niente di strano: ciò che, però, rese quasi leggendaria la figura della donna fu la pratica delle armi, nella quale, affiancando il marito, si distinse per coraggio e valore, tanto da farne un’eroina molto amata, soprattutto in epoca romantica.
Proseguiamo diritti passando a sinistra dei prati e torniamo nel bosco, una bella selva di castagni, imboccando una mulattiera che passa per una fontana. Ad un bivio, stiamo a destra (la mulattiera sulla sinistra scende a Cosio Valtellino) e proseguiamo nella decisa dscesa. La mulattiera torna a farsi stradella e passa per la selva maloberti e per i ruderi di San Carlo (m. 385), circondati da castagni, prima di confluire nella strada provinciale della Val Gerola in corrispondenza della sua partenza, cioè alle case di Morbegno, dove la traversata dei paesi orobici termina.
Non sarà difficile, utilizzando i mezzi pubblici o due automobili, tornare da Morbegno a Sirta.


Morbegno

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Rasura

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