Un paese è fatto di persone e personaggi. Questi ultimi sono più che semplici persone, spiccano per argutezza, bizzarria, originalità, dabbenaggine, sono protagonisti di storie, detti, casi che sembrano condensare in un sorriso quel che vi è di curioso nelle vicissitudini e sfaccettature dell’esistenza. Non sono tipici, sono tipi. Impossibile raccontarli tutti. Basterà, però, per rendere omaggio a questi rappresentanti privilegiati del microcosmo dei paesi, menzionarne alcuni, sorvolando qua e là, fra i campanili della Valtellina. E siccome questa deve forse il suo nome a Teglio, partiamo da qui. Nel Dizionario Tellino di Elisa Branchi e Luigi Berti, edito nel 2002 a cura della Biblioteca Comunale di Teglio, sono riportate diverse composizioni di Bruno Besta (1905-1964), che fu illustre tisiologo, docente all'Università degli Studi di Genova e fine poeta dialettale. Vi si tratteggia, fra le altre, la figura del Pédro (le sue poesie sono state pubblicate, a cura degli Amici del Rotary Club, nel 1965). Eccone due schizzi.
Una volta el Pédro incrociò, scendendo da Teglio a Vagella, un brigadiere, che non lo conosceva. Ne nacque il seguente dialogo. “Di dove siete?” El dìs: “Mi so de Téi”. “E dove andate?” “’Ndó fin gió a Vangèla" “E la strada l’é lunga?” “Sì, matèi, ma a turnà indré la par gnànca più quéla”. “Ma siete matto?” “Oh, per quést (a)n sé intés, perché, a vulé ben dir la verità, ed dipent tüt de l’ària del paés, che mét adòs (ü)n pó de matedà. Però de galantóm, sciùr brigadiér, se ó pròpe de cüntàla cùme l’é, dòpo che n’ó bevü (ü)n quài bicér, m’encórge gnànca de tirà dré i pé: el nòs vin, quant l’è pròpi sincér, el fa cur piü che l’àsén del Nucré”. La traduzione, per chi ne avesse bisogno, rovina l’irresistibile effetto comico delle battute, ma tant’è, suona così: “Di dove siete?” Dice: “Io sono di Teglio” “E dove andate?” “Scendo a Valgella" “La strada è lunga?” “Sì, ragazzi, ma tornando indietro non sembra neanche più quella”. “Ma siete matto?” “O, per questo siamo d’accordo, perché, a dir la verità, dipende tutto dall’aria del paese, che mi mette addosso un po’ di follia. Però, detto fra galantuomini, signor brigadiere, se devo proprio dirla com’è, dopo che ne ho bevuto qualche bicchiere, non mi accorgo neppure di tirar dietro i piedi: il nostro vino, quando è davvero genuino, fa correre più dell’asino del Nucré”.
Quest’ultimo, poi, era un altro personaggio del paese, ed il suo asino era diventato proverbiale. Tutto era cominciato da un’epica sfida fra il vecchio contadino ed il giovanissimo mostro che sbuffava e sferragliava sulle rotaie della linea ferroviaria Sondrio-Tirano. Il Nucré aveva scommesso che ci metteva meno lui, sul suo asino, a passare da Tresenda a San Giacomo di quanto ci mettesse il treno. E si cimentò in diverse gare per dimostrarlo. Cosa accadde precisamente le cronache non lo raccontano, ma, fosse riuscito a vincere o comunque a tener testa al treno, da allora passò nell’uso, per dire che una persona era velocissima, l’espressione “El cur piü che l’àsén del Nucré”, cioè corre più dell’asino del Nucré.
Ma torniamo al nostro Pédro. Un’altra volta si mise in mente di andare a trovare la figlia, che prestava servizio come domestica presso una famiglia di Milano. Ecco quel che disse, prima di partire, ad un amico. “’Nghì che tè n’dé, Pèdro?” “Ndó a Milàn, che la mè s’cèta l’é lagió a servì; g’ó scià ‘nghe la sachéta ‘n pó de pan e ‘na butìgia che düra tri dì” “Ma cùme fét a ‘ndà?” “’Ndò cul dirèt de la Tresènda fina lagió fò, e quant che rüve, stó ‘n sala d’aspèt, che lé la végne a töm, se no stó gliò.” “Ma te gh’è mìga scià la direziùn?” “Sigüra che ghe l’ó: prèso sciur Möia, via Cesare Scurénta, quarantùn… Ma mì, Giuvàn, ó già maiàt la föia, i né scurénte n’ótro méno bùn, che mi stó gliò a specià fin che gh’ó vöia”. Anche qui il traduttore è traditore, ma tant’è: “Dov’è che vai, Pédro?” “Vado a Milano, perché mia figlia si trova lì a servire; ho con me in un sacchetto un po’ di pane e una bottiglia che dura tre giorni.” “Ma come fai ad andare?” “Vado con il diretto da Tresenda fino a laggiù, e quando sono arrivato sto in sala d’aspetto, che venga a prendermi, altrimenti rimango lì.” “Ma non hai con te l’indirizzo?” “Certo che ce l’ho: presso il signor Moia, via Cesare Scurenta, quarantuno… Ma io, Giovanni, ho già mangiato la foglia, che caccino via un altro meno furbo, perché io rimango lì ad aspettare finché ne ho voglia.” Per capire la comicità della situazione, bisogna sapere che Scurénta è il nome della via, ma suona assai simile a “scurentà”, verbo che significa “cacciar via in malo modo”. Ed il Pédro mangia la foglia…
Non possiamo lasciare Teglio senza accennare a qualche altra gustosa figura. Come quella di Caterina Valli, energica contadina, che un giorno si deve recare alla Pretura di Tirano a firmare un importante documento con tanto di carta bollata. Si ritrova così, lei che ne aveva affrontate di fatiche nella vita, a “südà de catìf, come se ‘l füs de purtà ‘na culdéra de lac’ fin sü a Nimìna”, cioè a sudare di brutto, come se dovesse portare una caldaia di latte fino all’alpe di Nemìna. Impacciata e confusa, sbagliò a firmare, vergando una “Q” al posto della “C”. Quando il cancelliere se ne accorse, si preoccupò molto, perché quella firma scorretta invalidava l’atto. Decise, allora, per non rifare tutto, di cancellare la lettera galeotta, grattando via con pazienza l’inchiostro, e chiedendo alla contadina di sovrapporvi la lettera corretta. Ma, per giustificare l’evidente cancellatura, decise anche di attestare di proprio pugno che si trattava di una correzione legittima, e scrisse in calce alla firma: “Dichiaro di aver grattato stamattina il Qù alla suddetta Catterina; l'era seràt però porte e fenestre e 'n presenza della guardia campestre”. Ineffabile.
A proposito di donne, merita una citazione l’anonima tellina che, rimasta, ancor giovane, vedova di un anziano marito, e risposatasi subito con il ben più giovane “famèi”, cioè con il contadino che serviva presso la sua famiglia, fece apporre sulla tomba del defunto marito la scritta “La moglie riconoscente pose”. Inarrivabile.
Non può mancare, in questa carrellata tellina, il parroco don Alessandro Valli, che merita di essere ricordato per la battuta fulminante rivolta ad una donna, il giorno del suo solenne ingresso in paese; costei si lasciò scappare il commento “Se l’è brüt e pìscen!” (Com’è brutto e piccolo!); le replicò: “M’han mìga mandà chi per ràzza” (Non mi hanno mica mandato qui per la mia costituzione).
Fra i tipi da paese non manca mai il furbacchione, quello che pensa di poterla fare a tutti, ma alla fine non è mai abbastanza furbo. Restiamo a Teglio, per raccontare la storia di un tale che incarna perfettamente questa figura. Saliva, costui, alla contrada Reghenzani, carico di un gerlo con gherigli di noce che portava al frantoio per ricavarne il prezioso olio. Passò, così, davanti alla cappelletta della Madonna e gli venne fatto di pensare, a lui che non aveva mai sopportato troppo il fumo dell’incenso, che una preghiera non costa nulla, e poi, non si sa mai… Pregò allora la Madonna così: “Cara Madòna, fam vignì fó tant òle de sti nus! Se te ‘n fe vignì fò tant, quànda che turne ‘ndré, te ‘n dó ‘n pò per la lüm », cioè : "Cara Madonna, fammi ricavare tanto olio da queste noci! Se ne fai venir fuori tanto, quando torno indietro, te ne do un po’ per il tuo lume”. Potenza delle preghiere che salgono al cielo con le ali della fede! Da quelle noci di olio ne venne fuori in quantità ed il nostro eroe ne fu interamente soddisfatto. Carico del prezioso olio, si rimise in cammino per tornare a casa.
Era ormai sera fatta, e ripassò dalla cappelletta della Madonna. Già, la promessa! Se n’era dimenticato… Ma poi era proprio necessario mantenerla? Quel bell’olio, peccato lasciarlo lì alla Madonna, qualcun altro ci avrebbe pensato, qualche buona donna devota. La decisione era presa, ma non aveva il coraggio, con la coscienza sporca che si ritrovava, di affrontare lo sguardo della Madonna. Si chinò, allora, e procedette quasi carponi, per sfuggire al suo occhio. Camminava basso, ma teneva lo sguardo alto, per assicurarsi che la Madonna non lo vedesse. Così fu lui a non vedere, a non vedere un sasso che sporgeva dal terreno: vi inciampò, cadde e rovesciò tutto l’olio. Un disastro! Tutta la fatica a raccogliere le noci, a sgusciarle, a portarle al frantoio, tutto per nulla! Lo prese dapprima lo sconforto, poi un moto d’ira. Rialzatosi, guardò con fiero cipiglio la Madonna, che per parte sua non aveva mai perso quel suo dolce sguardo celeste che ora gli dava così fastidio, e sbottò: “Tée, öc de bò. Adès l’é piü gné mè, gné tò!”, cioè “Tu, occhi di bue. Adesso non è più né mio, né tuo”. (Dal Dizionario Tellino, cit.).

Categoria diversa è quella dei fegatacci, quei tipi coriacei che difficilmente si lasciano impressionare o peggio ancora piegare da qualcosa. Ne scegliamo uno, come rappresentativo di tutti, ma per farlo dobbiamo cambiare aria, latitudine ed altitudine e portarci a Piantedo, cioè all'ingresso meridionale della Valtellina. Qui viveva un tale Gerùnzi, in una baita tra il torrente Mandriasco e la chiesetta di San Rocco. Nei primi anni del secolo scorso venne giù dal ripido versante del monte una rovinosa valanga. La sentì appena in tempo per precipitarsi fuori: un attimo dopo la sua baita era sventrata. Quando accorsero dalle baite vicine gli altri contadini, temendo il peggio, lo videro lì, fermo, a guardare la rovina, con aria più seccata che sconvolta. Prima ancora che potessero dirgli qualcosa, fu lui a riassumere il senso dell'accaduto, esclamando: "Gh'ho lassà dent la pipa!"
Poi ci sono i tipi arguti, saggi e flemmatici. Per trovarne uno trasportiamoci da Piantedo a Campo Tartano, il primo paese che si trova all’ingresso della valle omonima. Terra ricca di personaggi. Il più arguto ed, insieme, bonario di tutti è quel personaggio davvero unico che risponde al nome del signor Pacifico. Di nome e di fatto. Un signore che aveva una filosofia tutta sua della vita, pur non avendo mai studiato filosofia. Lo mostrò bene a tutti quel giorno che, stanco della cima della Zocca, che gli nascondeva per tante ore la luce del sole, si armò di pala e piccone e cominciò a salire il monte per spianarla. Lo videro partire in molti, quella mattina, e dissero: “Il signor Pacifico va in guerra, va in guerra contro la montagna”. E rimasero ad attendere il suo ritorno, curiosi. Il nostro eroe, passo dopo passo, si inerpicava su per quel sentiero che porta all’alpe d’Assola e poi alla cime del monte.
Man mano che lui saliva, però, aumentava anche la fatica. E poi vedeva che la montagna era più grande di quanto avesse immaginato a guardarla da Campo. Dopo aver cavato quattro o cinque volte il fazzoletto dalla tasca per tergersi la fronte dal sudore, pensò: “Non ce la farò mai a spianare la montagna: me la devo tenere così com’è”. Eì se ne tornò indietro. Gli chiesero, i suoi amici: “Oh Pacifico, com’è che la montagna è ancora là?” “Là montagna è sempre stata là, e là resta”. Così espresse la sua filosofia su quella montagna, ed agli occhi di tutti i Camparèi non fece la figura di sciocco, ma di saggio.
Un’altra volta se ne stava tornando a Campo, per la mulattiera della Val Fabiolo, dopo essere sceso alla Sirta, ed incontrò due belle signorine, due maestre che scendevano dopo aver fatto scuola a Campo. Erano l’inizio di ottobre, il mese che porta i primi giorni di scuola e le prime spruzzate di neve. Il nostro eroe era già brizzolato, ed una delle due maestre, con aria di sufficienza un po’ canzonatoria, al vederlo, esclamò: “Eh, ce n’è già di neve sui monti!”, alludendo ai suoi molti capelli bianchi. E quello, pronto: “Certo che c’è neve: le vacche stan già scendendo al piano”. Così rispose il signor Pacifico, e, da allora, nessuno osò più prenderlo in giro.
Decisamente meno arguto, ma non meno divertente è il protagonista, da annoverare nella categoria degli ingenui, di un aneddoto davvero...gustoso. Fra i cibi più gustosi della cucina contadina vanno annoverati i "buci", cioè le pallottole di polenta con del formaggio in mezzo, che venivano abbrustolite fino a far fondere il formaggio. Ebbene, si racconta che un emigrante, che doveva affrontare un lungo e costoso viaggio in nave per raggiungere l'America, decise di risparmiare sulle spese portandosi con sé una cospicua scorta di "buci". Rifiutava, quindi, il cibo servito sulla nave, e si mangiava una "bùcia" al giorno. Ma alla fine, ebbe l'amara sorpresa, che condensò in una frase passata alla storia: "E màia buci, e màia buci, àla fìi hoo pagàa cumè i otre" ("E mangia palline, e mangia palline, alla fine ho pagato come gli altri").
Lasciamo questa valle, non prima, però, di aver raccontato un aneddoto famosissimo, che si riferisce ad un abitante di Tartano, suo centro principale. Questo Tartanöl non aveva mai visto altro, in tutta la sua vita, se non Tartano e le sue contrade vicine. Gli capitò, un giorno, di doversi recare a Campo. Quando giunse al borgo rivale, gli si aprì innanzi agli occhi quel superbo panorama per il quale Campo è giustamente famosa: la bassa Valtellina, con i suoi paesi ben più grandi di Tartano, e poi quel bel lago, laggiù sul fondo, e, ancora, tutte quelle montagne, sullo sfondo, di cui non si riusciva neppure a vedere la fine. Rimase a bocca aperta per un bel po’, poi, sotto gli occhi divertiti del Camparèi, cui questo scenario era ben più familiare, si cavò dal capo il cappello, e lo scagliò, con tutta la forza che aveva, lontano,esclamando: “Fèrmet, capèl, che de munt tu n’èe vedüü asée”, cioè: “Fermati, cappello, che di mondo ne hai visto a sufficienza!”. Come dire: dopo aver visto un mondo così grande, che ci si può aspettare di più? Lui, che era da sempre abituato alla vista di un altro “munt”, cioè del monte, del paese natìo, dell’alpeggio, di fronte a quel vasto ed inaspettato “munt”, il mondo, era rimasto stupefatto ed appagato, quasi che la bassa Valtellina fosse un mondo così vasto da soddisfare la più grande curiosità possibile.

Merita di essere ricordato, fra le figure più caratteristiche di questa valle, anche il "Sig. Barnaba Gusmeroli della contrada Tegia, combattente alla Breccia di Porta Pia per la presa di Roma nel 1870; mandato in licenza premio e non presentatosi al suo scadere, fu raggiunto dai RR.CC. sul piazzale della propria abitazione, e alla loro domanda: - Sta qui Gusmeroli Barnaba? Rispose: - Per la Madonna, son pronto! ..." (da "Storia di Tartano", di Camillo Gusmeroli, Montagna in valtellina, 1985).
Chiudiamo il nostro viaggio verso ovest raggiungendo Verceia, posta sul limite basso della Valchiavenna. Qui troviamo (ce ne parla una ricerca della scuola media di Novate Mezzola) il Ciufà, che non brilla per furbizia: ecco, quindi, la categoria degli sciocchi, che non difetta mai di rappresentanti. Una volta si mise a cavalcioni di un ramo, per tagliarlo. Solo che, invece di porsi verso l’attacco del ramo rispetto al punto del taglio, si mise sul lato opposto. Lo vide contadino, che passava di lì con il suo asino, e gli gridò. “Ehilà, guarda che se rimani lì e seghi il ramo, cadrai a terra”. Il Ciufà non gli diede retta, ma accadde proprio così, e ruzzolò a terra. Non si era fatto molto male, e si rialzò subito, sotto lo sguardo divertito del contadino, al quale disse: “Ma senti un po’, tu che sei capace di predire il futuro, dimmi quando morirò”. Questi lo guardò per qualche istante, poi sentenziò, con tono sicuro e solenne: “Quando il mio asino avrà fatto tre scoregge”.

Al povero Ciufà venne male! Cosa ci voleva ad un asino per fare tre scoregge? Prese, dunque, a seguirlo, pregando tutti santi che conosceva perché l’asino cessasse quel naturale scorrere d’aria che, come dice un antico proverbio popolare, è sintomo di “sanità di corpo”. Aspettò ed aspettò, finché venne il primo segno del destino: l'asino aveva scoreggiato. Scoraggiato, Ciufà si sedette, con la testa fra le mani. Era demoralizzato: gli restavano solo due scoregge. Passò un po’ di tempo, e, come rintocco di una campana a morto, venne anche la seconda scoreggia. Aveva il morale sotto i tacchi, ormai era ad un passo dall’ultimo istante della sua vita. La terza scoreggia dell’asino risuonò come una tromba, la tromba del giudizio universale. Il Ciufà si accasciò a terra, senza più muoversi. Venne raccolto dai suoi paesani e portato via come morto. Dopo la funzione funebre, questi se lo caricarono sulle spalle per portarlo al cimitero. Ora, c’erano due strade per arrivarci, la via vecchia e la via nuova. Cominciarono a litigare su quale fosse la migliore. Al che il Ciufà tirò su la testa e con questa il busto, poi, per evitare che il suo funerale fosse guastato da una lite, suggerì: “Da vivo al cimitero ci andavo sempre per la via vecchia”. I compaesani, allora, se lo tirarono giù dalle spalle, e, per la seconda volta in quel giorno, Ciufà ruzzolò a terra, mentre questi lo apostrofavano dicendo: “Se da vivo ci andavi con le tue gambe, allora vacci anche da morto”.

 

Se esistono i personaggi da paese, esistono anche animali che, per le loro caratteristiche curiose e fuori del comune, meritano di essere inseriti in un'ideale galleria rappresentativa di colori e suggestioni di Valtellina. Prendendo a prestito alcune annotazioni dalla già citata Storia di Tartano di Camillo Gusmeroli, ne proponiamo alcuni.
"BATAI = mulo del casato Pila, testardo e spiritato che si caricava e scaricava da solo, scompari­va ed appariva, si slegava e legava a sua volontà, usciva e rientrava in stalla... ULIVA = vacca polaggina che, subodorando la data di monticazione dell'alpe Scala di Tartano, partiva nottetempo dalla propria stalla di Polaggia e si presentava, nelle prime ore del mattino, davanti a quella dei Fratelli Giovanni e Celeste Bulanti, in località Prati Ules di Tartano, caricatori di detta alpe. TESTANERA O CINOSO = maialino della famiglia Camillo del 1955. Seguiva ogni spostamento dei componenti sia nel prato che nel bosco dell'Arale. Se l'ora del suo pasto veniva procrastinata di qualche minuto, saliva le scale del primo piano e si presentava alla porta della cucina, all'invito: - Vai che te ne porto subito, scendeva le scale grugnendo affettuosamente ed aspettava tranquillo nel suo angolo consueto. Quando i bambini Giorgio, Beniamino, e Marisa videro nel frigorifero gli zampini di Cinoso, si misero a piangere e non vollero mangiare dette carni... MATOCH = asino ricalcitrante e testardo, non meno dei suoi padroni bergamini dell'Arale: Toni, Giacomo, Caterina. Sta di fatto che volendo far passare l'asino sul ponte della Cesura, formato da solo due legni, e non volendo perchè generalmente hanno paura, passare su detti trabiccoli e non è consigliabile perchè possono infilare gli zoccoli nelle fessure, perdere l'equilibrio e cadere, si unirono tutti e tre per fargli guadagnare l'altra sponda, ma finirono a lasciar precipitare il quadrupede nel torrente; sentiamo l'accaduto dalla viva voce bergamina del congiunto Bernardo presente al fatto: Toni tireva, Jacum punceva, Caterini ghe dava del legn, ul Matoch l'è burlàt giù."

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