Qui non si racconta una storia, ma un sentimento, che forse è la radice di molte storie. Nel 1811 il prefetto del Dipartimento dell’Adda Angiolini, incaricato di condurre per l’autorità napoleonica ricerche sulle consuetudini del territorio di sua competenza, scriveva: “Diversi sono i pregiudizi, e varie sono le superstizioni (che) tormentano ed avviliscono lo spirito di queste popolazioni. Dipendono in gran parte dalla natura del paese che abitano. Lo spettacolo della natura fra i monti, particolarmente di notte, ha sempre qualche cosa di grande e terribile, capace a scuotere non solamente le menti de’ deboli e degli ignoranti, ma pur anche talora quelle degli uomini colti ed illuminati. Le nevi eterne che ricoprono le cime, i ciglioni sporgenti, le profonde valli per cui scorrono fragorosi torrenti che travolgono massi enormi, l’urlar del vento fra le gole delle montagne, le bizzarre forme che prendono le nubi nell’atmosfera, sono tante circostanze che dispongono la mente a ricevere mille impressioni malinconiche, che ben presto l’immaginazione riveste d’un’arbitraria realtà. Ed è forse perciò che questi contadini hanno nel loro dialetto la parola colostro o solengo per esprimere quel brivido, quell’orrore che viene all’uomo dal riflettere ch’egli fa sulla sua situazione isolata: situazione che crea e ingigantisce i pericoli, che scema ed annulla la confidenza che dobbiamo avere in noi stessi; per cui noi siamo dominati dagli oggetti esterni, la nostra ragione si rivolge a nostro danno.”

Gli fa eco Francesco Visconti Venosta, il quale, ne “La Valtellina nel 1844 – Notizie statistiche intorno alla Valtellina” (ed. Monografie dei Quaderni valtellinesi, Sondrio, 1986):
La vecchia superstizione è molto scemata ma non tolta del tutto fra le persone del volgo. Va ancora chi crede alle streghe, ai folletti, agli spiriti che abitano certe case deserte, alle maledizioni che infermano il bestiame, o che chiamano le locuste sul capo. Un brillante scrittore fa dipendere codeste credenze dalla natura del paese. Lo spettacolo della natura fra i monti ha sempre qualche cosa di grande e di terribile capace a scuotere non solo le menti dei deboli e degli ignoranti, ma anche quelle degli uomini colti ed illuminati. Le nevi eterne che coprono le cime, i ciglioni sporgenti, le profonde valli per cui scorrono fragorosi torrenti, che travolgono massi enormi, il fischiare del vento fra le gole delle montagne, la proiezione delle ombre, sono tutte cose che dispongono la mente a ricevere mille impressioni melanconiche e fantastiche che ben presto l'immaginazione riveste d'un'arbitraria realtà. I contadini hanno nel loro dialetto la parola solastro o solengo per esprimere quella tristezza o quasi spavento che si ingenera nell'uomo a trovarsi solo al cospetto dell'immensa natura. Non è quindi strano anzi è prova di mente pronta e vivace, se in codesta disposizione di animo si dà corpo alle fantasie e si crede le ombre de' morti errare la notte, e con idea dantesca, e che forse rimonta a quei tempi, confina­to dalla invidia o dalla malignità, qualche ricco che muoia in opinione d'essere stato poco caritatevole, o poco religioso, a picchiare infino al dì del giudizio con grosse mazze ferrate gli ultimi scogli dei monti, e vi sia chi giura d'avere la notte sentito i colpi.”
Nel livignasco è viva la leggenda del "giorno del solastro", il più breve e scuro, nel quale la volpe maschio, dal pelo irto e coperto di aculei, veniva giù dalla Valle dell'Orsa, in cerca di cristiani da divorare.

Nel Dizionario Tellino di Elisa Branchi e Luigi Berti, edito nel 2002 a cura della Biblioteca Comunale di Teglio, Remo Bracchi riconduce l’origine del termine “solastro” al latino “sublustris”, cioè “chiaroscuro”, per cui il nucleo semantico originario si riferisce al senso di smarrimento che prende l’uomo di fronte allo scenario montano che, al crepuscolo, perde le sembianze familiari, per assumere contorni inquietanti. Ma è interessante osservare che esso si riferisce anche ad una seconda radice, cioè al baluginare improvviso, per breve istante, del lampo o di un raggio di sole fra le nuvole. Il termine è presente in diverse versioni dialettali: “sulüstru”, nel dialetto tellino, aggettivo riferito a luoghi tristi, solitari, cupi; “salüstro”, nel dialetto di Villa di Chiavenna, che significa “lampo”; “solàsc’ tru”, nel dialetto di Cepina, che significa “tristezza e spavento nel quale si trova talvolta l’alpigiano sui monti”; “sulùstru” e “sulùstrech”, nel dialetto grosino, che significano paura e presentimento oscuro.
Il Bracchi riporta, quindi, numerosi esempi dialettali che si riferiscono al “solengo”, che deriva, evidentemente, dalla radice di “solus”, “solitario”: “solènch”, nel dialetto tiranese, che significa “spavento, paura, orrore”; “sulènt”, nel dialetto di Castione Andevenno, che significa “inquietudine”; “sulèngul”, nel dialetto della Val di Tartano, che significa “senso di solitudine, tristezza, malinconia, abbandono”; “surìul”, nel dialetto della Val di Tartano, che significa “senso di solitudine, abbandono, tristezza, conseguente alla partenza o perdita di persona cara”; “suléench”, nel dialetto di Novate Mezzola, che significa “sentimento di tristezza mista a paura, che si prova in luoghi solitari e selvaggi”.

Solengo non è solo sostantivo, ma anche aggettivo, che si può riferire a luoghi, animali e uomini, e che vale "solitario, appartato"; Aurelio Garobbio, uno dei maggiori studiosi dell’universo immaginario dell’arco alpino, nella bella raccolta “Montagne e Valli incantate”, (Rocca San Casciano, Cappelli, 1963), scrive, nel capitolo dedicato alla dimensione magico-fantastica della Valtellina (pg. 148): “Anche fra i camosci c'è il solengo che non partecipa alla vita del branco":
Tullio Urangia Tazzoli, a sua volta, ne "La contea di Bormio", annota: "I contadini bormiesi hanno nel loro dialetto le parole soleistro, soléngo, solénk, che esprimono la tristezza, lo spavento quasi che s'ingenera nell'animo dell'uomo a trovarsi al cospetto dell'immensa natura. Non è, quindi, strana la creazione nella mente di tutto un mondo che sfugge alla nostra comune diretta percezione e che ha attitudini diverse, figurazioni diverse e che crea dalla fantasia singola la fantasia collettiva che si tramanda nei secoli".
Nel solengo e nel solastro si addensano significati diversi, ma convergenti. Proviamo a ricomporre i tasselli dell’esperienza originaria che sta alla radice del solengo.
Un uomo è solo in uno scenario montano: per un qualche motivo, è solo in una baita, in un alpeggio, percorre da solo un sentiero. La piena luce viene meno, si addensano le ombre, forse il cielo si è chiuso improvvisamente, è sceso, inaspettato, il crepuscolo. Ogni cosa perde il suo netto contorno, nel chiaroscuro i profili noti si smarriscono, gli scenari noti sono come trasfigurati, non si riconoscono più. È il solastro. D’improvviso, come un lampo che squarcia le tenebre, il solengo prende l’animo.

È un subitaneo brivido di paura, un sentimento di smarrimento profondo, forse anche di terrore. Non si annuncia, non cresce poco a poco, irrompe senza preannunciarsi, come un improvviso baluginare nel cielo. Poi, così come repentinamente è venuto, altrettanto repentinamente se ne va.
Resta la domanda: qual è la sua radice? È possibile tradurre nei termini della consapevolezza questo sentimento originario? Sicuramente esso dice anche un senso di profonda solitudine e fragilità, di fronte all’ampiezza dello scenario naturale, che non appare protettivo, materno, ma misterioso e soprattutto smisurato. Smisurato perché nessuna misura umana, nessuna categoria familiare agli uomini vi si può applicare veramente. Smisurato perché non sembra accogliere l’uomo come sua dimora elettiva, ma quasi respingerlo, o forse respingere le sue sicurezze, scandite dall’inesorabile ma anche tranquillizzante scorrere uniforme del tempo. Smisurato perché quanto vien meno la luce, dono del cielo per guidare gli uomini, le coordinate dello spazio si smarriscono, il tempo stesso sembra sospeso, le cose perdono ogni contorno rassicurante, tutto può assumere il sembiante della minaccia senza volto.

Ciò che colpisce è come quella medesima montagna che viene da molti vissuta come elevazione ad una dimensione luminosa e privilegiata, che ci sottrae alle angustie ed alle vicissitudini del quotidiano, quella medesima montagna, dunque, possa suscitare anche sentimenti apparentemente opposto. Forse, però, solo apparentemente: lo sradicamento dal quotidiano è liberazione dalle sue maglie, ma anche dalle sue sicurezze e comodità, ed ha quindi un’ambivalenza di fondo che rende ragione dell’aspetto oscuro custodito dalle esperienze del solengo e del solastro. Oggi, probabilmente, ancor più facile da sperimentare di quanto non accadesse in passato, perché più facile è l’incontro con luoghi montani dominati da una profonda solitudine, laddove, molto spesso, ferveva, almeno nella stagione estiva, una vita alacre e dura. Alpeggi abbandonati, sentieri dimenticati ed assaliti dalla debordante vegetazione, baite cadenti sono le icone del solastro contemporaneo. Che probabilmente è molto più tristezza e malinconia che paura e terrore.
Ecco come spiega il fenomeno del solastro Dario Benetti, nell’articolo “I pascoli e gli insediamenti d’alta quota” (in “Sondrio e il suo territorio”, IntesaBci, 2004): “La maggior parte degli alpeggi, in Valtellina e Valchiavenna, è situata a una quota po­sta tra i 1500 e i 2200 metri. In certi casi si arriva anche a 2400 o 2500 metri sopra il livello del mare: in genere le valli laterali, strette e anguste nella parte bassa, segnate da forre profonde e a volte inaccessibili. si aprono nella parte alta. con ampi e imprevedibili circhi glaciali. La percezione del paesaggio in questi luoghi, negli ottanta e più giorni dell'alpeggio, era particolarmente suggestiva.

Soprattutto dove il caricamento era affidato a una comunità di pastori, il lavoro dell'alpeggio, l'impegno di accudire il bestiame e le diverse fasi della lavorazione dei prodotti caseari, con tutti i rischi connessi del maltempo, dei temporali, delle valanghe e delle frane, si svolgevano in uno scenario grandioso con molti momenti di solitudine e silenzio”.
Si occupa di questo luogo dell'anima anche la studiosa di storia e costume valtellinese Lina Rini Bombardini, la quale, nel volume “In Valtellina – Colori di leggende e tradizioni”, scrive : “Ma il “solastro” o sgomento che prende nell’alpestre solitudine anche chi alla montagna è avvezzo, non nasce dal ricordo di questa o quella leggenda. Chi sa da che cosa nasce. È l’eco d’antiche paure? È il pensiero che i nostri passi premono le ceneri di scomparse generazioni? È il pensiero che sulla montagna ci sia intorno a noi, invisibile, anche un’altra vita? È il disagio di sentirsi soli nell’ampio silenzio, d’avere all’improvviso il vuoto intorno? È il fruscio misterioso e repentino delle fronde o la voce del vento; certe voci di selvatici, il singulto dello scoiattolo che ti sogguarda come beffardo e poi, fatta ala della coda, vola da questa a quella cima dell’albero? È l’urlo a un tratto della cascata o d’un vortice delle acque sotterranee? Forse il “solastro” è provocato da tutte queste cause assieme, fuse in un solo mistero: “quest’enorme mister dell’universo”.

Ma ogni ansia si placa, se riesci a trovarti fuori dal bosco, all’aperto, fra i soffici e verdissimi prati presso una dolce acqua stagnante…
L'ultima parola, però, spetta, doverosamente, alla poesia, alla custode della potenza evocativa della parola. Al solengo dedica una delle liriche (nella raccolta "Il perenne domani") il più importante fra i poeti chiavennaschi, Giovanni Bertacchi. Eccolo.

SOLENGO

Hai sonno, o terra? I monti
sfumano in afe azzurre laggiù, come un mondo che appaia
tra il sogno; si svolge lontana
dal nembo vaporoso e avanza la lunga giogaia,
come una carovana

smisurata di dromedari
che vada perpetuamente,
venuta da paesi di là dai fiumi e dai mari
a questa calma tetra, spirante dalle morene
e chiusa entro una cerchia di silenzio e di pietra.

O mia madre montagna,
non mi vuoi più? Gittasti per sempre dentro gli abissi
il fior delle ingenue parole
ch'io ti recai ne' baldi ritorni d'un tempo? Pur vissi
tanto lieto del sole

che t'incorona i nevai!
Fui tutto sensi, profferto
al vento della vita, come i lentischi e i rosai
che odorano selvaggi sul ciglio aspro, in ascolto
dell'acqua che discende dallo sgelo dei maggi.

Forse perché io non senta
più che il mio cuore ignudo, questo nulla enorme mi cinge;
dopo la facile gioia
sei tu che ora ti affacci tra quei due culmini, o sfinge
dell'infinito, o noia.

Sormonta al proprio passato
l'anima e batte alle creste
ultime, come ai lidi d'un mondo non esplorato...
Batte... ristà... se udita le venga una voce d'Altrove
che sciolga a lei l'enigma de' tuoi silenzi, o Vita.

Il solengo, dunque, forse anche come profondissimo disagio di fronte al silenzio, al torpore, all'estraneità, al nulla immenso di cui sembra tacere, talora, la natura, nel suo vaporoso sfumare. E, anche, come nostalgia di un Altrove.

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