Ci sono animali fantastici che sono legati indissolubilmente ad alcuni luoghi, di cui sono diventati quasi simbolo, come il celeberrimo Gigiàt della Val Masino, o il Daü di Livigno. Altri, invece, meno noti, meno celebrati, quasi rischiano di cadere nell’oblio. Eppure anch’essi hanno molto da insegnarci sulla fantasia popolare in alcune zone della nostra montagna.
Prendiamo il “panàu”. Solo in Valmalenco si trova chi ne sappia qualcosa. E non è facile trovarlo. Infatti da molto tempo quest’animale è scomparso dalla valle, l’ha lasciata, si è estinto, non si sa bene cosa sia successo. Ma una volta c’era, eccome. Popolava i boschi più densi della Valmalenco e faceva sentire il suo lugubre verso quando già le ombre si erano impossessate di ogni angolo della valle. Era un cacciatore terribile, un uccello rapace notturno, come il gufo o la civetta, ma più vorace, insidioso, veloce.
Nel nome stesso risuonava la sua oscura minaccia: “panàu” richiama “babàu”, spauracchio. Ed infatti era uno spauracchio per tutti i bambini, che venivano solennemente e severamente ammoniti a non addentrasi nei boschi sul far del tramonto, perché il predatore non faceva differenza fra le sue vittime: bambini, scoiattoli, topolini, marmotte, pecore, capre, tutto faceva…brodo per la sua fame insaziabile. Non c’era modo di scampare alla sua caccia: quando ti accorgevi della sua presenza, ti era già addosso, con quei suoi occhi luminosi e rotondi, quasi fiammeggianti, e non c’era più niente da fare. Gli anziani, nelle lunghe serate d’inverno passate nella stalla o accanto al focolare, raccontavano storie di bambini scomparsi, di cui più nulla si era saputo: ma certo c’era di mezzo il “panàu”, che li aveva sorpresi e ghermiti nel buio, non vi era dubbio.
Non si sapeva molto di più, di questo predatore, anche perché pochissimi potevano dire di averlo visto, anzi, intravisto, ed i cacciatori avevano un bell’appostarsi: di giorno si guardava bene dall’uscire dalla sua tana. Così c’era chi lo descriveva più grande di un’aquila, chi più veloce di un falco, chi più lugubre di un gufo. Ciascuno poteva dire la sua, senza poter essere smentito.
Forse stanco di tutte queste dicerie, magari un po’ esagerate, al limite della diffamazione, un bel giorno il “panàu” decise di togliere il disturbo. Non si sa bene quando, ma sparì dalla valle. Rimasero il nome e la leggenda. E rimase la consuetudine, curiosa, di chiamare “panàu” i finanzieri, perché anche loro si appostavano per sorprendere i contrabbandieri piombando su di loro improvvisi.
Ci sono diversi luoghi della Valmalenco il cui nome è legato a questo uccello. Si tratta dei sassi o delle baite prediletti dai finanzieri nei loro appostamenti. Nel comune di Chiesa in Valmalenco ce ne sono almeno tre, il “baitìgn di panàu”, piccola baita a monte della strada del Muretto, il “balùn del ciaz” o “balùn di panàu”, grosso masso a monte della strada per Chiareggio, ed il “casign di panàu”, piccola baita all’alpe d’Entova ("éntua"), presso il torrente Entovasco ("éntuàsch"), che sorvegliava la zona a valle del passo delle Tremogge. Nel comune di Caspoggio si trova, poi, il “böc di panàu”, masso con una cavità nei boschi della località Castello. Nel comune di Lanzada, infine, ci sono almeno cinque “sas di panàu”, roccioni utilizzati per gli appostamenti, sulla mulattiera Dosso dei Vetti (dus di vét) – alpe Campascio (campàasc), sulla mulattiera di accesso alla Foppa sopra Campo Franscia, sul limite a monte dell’alpeggio di Campagneda, a monte della chiesa di S. Carlo a Vetto e sulla strada per la località Bruciata. A questi vanno aggiunti una “cà di panàu”, un rudimentale ricovero ricavato sotto una roccia sporgente nella piana della Val Confinale che precede il passo omonimo, e la “caserme di panàu” (o “ca di panàu”), la caserma della Guardia di Finanza costruita alla fine dell’Ottocento ed abitata fino agli anni Sessanta del secolo scorso, dalla quale partivano i servizi di pattuglia verso diverse zone di confine, in particolare i passi di Canciano, Ur e Confinale.
L’accostamento fra il “panàu” ed i finanzieri si può comprendere considerando la psicologia dei contrabbandieri, che dovevano sobbarcarsi maratone faticosissime ed anche pericolose che, in periodi di stenti diffusi  (soprattutto gli anni Trenta e Quaranta del secolo scorso), costituivano un’integrazione del reddito delle magre economie contadine modesta, ma di vitale importanza. Una certa incoscienza e la vigoria fisica della giovane età erano componenti essenziali di quelle traversate, che erano, spesso, autentici tour de force. Si procedeva in squadre di 10-12 persone, nella buona stagione ma anche in quella invernale, alternandosi, nel tracciare la via fra la neve spesso alta, a 7-8 passi ciascuno, perché lo sforzo del battipista è assai maggiore di quello di chi segue.
Si procedeva con il prezioso carico, 25-30 kg circa (tabacco e sale dalla Svizzera, ma anche formaggi, burro, salumi, riso e lana d’angora dall’Italia alla Svizzera) a spalla, pronti a nasconderlo in un luogo sicuro al primo sentore di un possibile incontro-scontro con gli avversari di sempre, i finanzieri. Si procedeva con l’ausilio degli sci, certo non moderni e tecnologici come gli attuali, ma rudimentali, spesso ricavati in casa da tronchi di frassino. Si procedeva con il cuore in gola, perché la sorpresa poteva sempre materializzarsi e diventare rischio mortale, primo fra tutti quello connesso con slavine e valanghe, senza dimenticare le insidie del gelo e della tormenta che ti paralizza e rischia di farti perdere del tutto l’orientamento, perché anche il più esperto conoscitore dei percorsi montani sa che quando la visibilità si riduce a pochi metri, non ci si rende davvero più conto di dove si è e di dove si sta andando.
Il più delle volte filava tutto liscio, anche grazie ad un capillare sistema di segnalazione di alcuni alpeggiatori “complici” che, soprattutto d’estate, quando la vegetazione riduceva di molto la visibilità delle persone, avvertiva i contrabbandieri degli appostamenti dei finanzieri; qualche volta, però, si doveva nascondere tutto in qualche anfratto o nella neve, battersela a tutta velocità, per tornare, poi, a recuperare la merce. Era così una sfida sempre rinnovata, fra i “panàu” e gli spalloni, una sfida fatta di astuzia più che di forza. Una sfida che, come il mitico rapace, appartiene ormai al passato, al ricordo, alla storia ed un po’ anche alla leggenda ed al mito.

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