ESCURSIONI A MORBEGNO


Fantasmi: da sempre, questo termine è sinonimo di paura. Freud spiegava che la paura che gli uomini hanno dei fantasmi di persone defunte ha, come radice inconscia, il senso di colpe nei loro confronti. Può essere. Quel che è certo è che leggende e storie di fantasmi popolano le più diverse culture e, nella maggior parte dei casi, si riconducono a vicende che hanno come protagoniste anime in pena, che visitano il mondo dei vivi perché, per diversi motivi, non sono con questo riconciliate. Anime che talvolta si limitano ad incutere terrore, ma altre volte hanno la volontà ed il potere di arrecare danni maggiori, ed addirittura di portare via con sé i vivi.
Nel territorio del comune di Morbegno, capoluogo dell’antico terziere della bassa Valtellina, ci sono alcuni luoghi che si connettono con il tema dei fantasmi. Due di questi sono all’imbocco delle valli del Bitto, quella di Gerola e quella di Albaredo (albarée). Partiamo dalla valle più occidentale, la Val Gerola. L’antica mulattiera che la risale parte appena al di là del ponte più alto sul Bitto, quello sorvegliato dalla statua di san Giovanni Nepomucéno, protettore della città dalle piene rabbiose del Bitto. Varcato il ponte da est ad ovest, troviamo subito, sulla sinistra, il vicolo Nani, imboccato il quale ci troviamo, ben presto, sulla ripida mulattiera che sale non lontano dal fianco occidentale della valle.
Dopo il primo severo strappo, intercettiamo una stradina asfaltata che parte, sulla sinistra, in corrispondenza dell’inizio della strada statale 404 della Val Gerola.
La stradina, con fondo lastricato, prosegue con un andamento meno ripido e ci porta ai ruderi delle case della località san Carlo, a 385 metri. Troviamo, fra i ruderi, anche una chiesetta secentesca. Proprio a questo luogo è legata un’antica leggenda. Pare che, dopo l’imbrunire, il viandante si possa imbattere in una misteriosa fiammella, la forma meno paurosa, ma non priva di elementi inquietanti, della presenza di un’anima defunta. Con espressione dialettale è stata battezzata “ciarìn de san Carlu”, e non pare avere un comportamento minaccioso: non si avvicina ai vivi, ed, anzi, tende a sfuggire alla loro curiosità, allontanandosi da quanti cerchino di vederla più da vicino. Queste apparizioni avvengono soprattutto nelle notti d’estate, ed hanno dato vita a diverse spiegazioni. La più accreditata si ispira alla natura dei luoghi, densi di spessore storico.
Pochi metri più avanti, al primo tornante destrorso, è possibile vedere ancora, infatti, a sinistra, su un modesto terrazzo prativo di forte suggestione panoramica, i miseri resti di una torre medievale (citata, ai tempi della sua visita pastorale in Valtellina, dal morbegnese e Vescovo di Como Feliciano Ninguarda, nel 1589). Più in alto, sulla mulattiera, oltrepassata la panoramica selva Maloberti (punto di sosta attrezzato), siamo, poi, a Campione (m. 580), località legata alla figura dell’eroina rinascimentale Bona Lombarda. Si trattava di una semplice contadina, di cui si innamorò il capitano Pietro Brunoro, che militava nell’esercito del Ducato di Milano (allora signoria dei Visconti), guidato dal capitano di ventura Niccolò Piccinino e dal valtellinese Stefano Quadrio, esercito che aveva appena sconfitto quello veneziano nella battaglia di Delebio (1432). I due si sposarono nella chiesa di Sacco e la moglie seguì poi il capitano, di origine parmense, nelle sue peregrinazioni legate alla compagnia di ventura per la quale militava. Fin qui niente di strano: ciò che, però, rese quasi leggendaria la figura della donna fu la pratica delle armi, nella quale, affiancando il marito, si distinse per coraggio e valore.
Ebbene: secondo i più, la fiammella sarebbe proprio la manifestazione visibile della sua anima, che torna ai luoghi eternamente legati a quel primo innamoramento che resta, fra i ricordi di un’esistenza, probabilmente il più caro. Una versione, quindi, assai romantica.
Ne esistono, però, di ben più sinistre. Secondo altri, infatti, la fiammella sarebbe un’anima in pena. Raccontano, inoltre, che in questi luoghi si siano visti anche fantasmi di sacerdoti celebrare la Messa, chiedendo ai malcapitati viandanti, impietriti per il terrore, di servire l’inquietante liturgia. Chi ha ragione? Non c’è altro modo di sciogliere l’arcano dilemma se non quello di percorrere la mulattiera, a sera calata, dal vicolo Nani alla statale 404, che intercetta poco sopra Campione (proseguendo, sul lato opposto della strada, fino a Sacco, m. 700).
Portiamoci, ora, all’imbocco della Valle del Bitto di Albaredo. La provinciale per il passo di San Marco, che parte dalla piazza S. Antonio di Morbegno, dopo un primo tratto nel quale sale circondata da selve, attraversa, ad un tornante destrorso, una bellissima ed ampia conca di prati, la località Ortesida (m. 630). Proseguendo verso Arzo ("aars" termine che deriva da “arso”, bruciato), circa mezzo chilometro oltre, troviamo, sulla destra, uno slargo della carreggiata, e, sulla sinistra, una fermata del servizio di autobus Morbegno-Albaredo. Lasciamo qui l’automobile ed imbocchiamo una stradina che, dopo pochi metri, ci porta ai prati dei Tartüsèi, che dalla strada non si vedono, perché sono nascosti da una breve fascia di alberi. La località è incantevole: seguendo un sentierino, giungiamo nei pressi di una chiesetta. L’amenità dei prati contrasta con la leggenda che li riguarda. Un tempo qui la gente viveva tutto l’anno, e si narrava che, nelle notti di luna piena, un fantasma si aggirasse fra il limite del bosco e le baite.
Coloro che ne testimoniavano l’esistenza non erano in grado di darne una descrizione precisa ed univoca, per cui anche qui le versioni erano contrastanti: vi era chi credeva che si trattasse di un’anima che torna a visitare i luoghi amati e chi, invece, chi parlava di un’anima inquieta e tormentata, condannata da Dio, per le sue colpe, ad aggirarsi senza pace, turbando la pace dei vivi, oppure a cercare invano un tesoro che non aveva mai trovato in vita. L’effetto era, comunque, assai inquietante, tanto che il fantasma veniva denominato “la paura”, e costituiva il protagonista di innumerevoli storie raccontate, nelle precoci sere d’inverno, ai bambini. 
Di queste due leggende si può leggere nel bel volume di Giulio Perotti intitolato “Morbegno”, ed edito nel 1992 a cura della cooperativa turistica Pan.
Fin qui il fantasma nella dimensione dell’arcano. Sempre nel territorio del comune di Morbegno è, però, possibile anche trovare una variazione sul tema, un vero e proprio paese fantasma, che, per la quota modesta, rappresenta un esempio unico in Valtellina. Si tratta dei Torchi Bianchi, località dal passato illustre, per la sua felice collocazione geografica. Giovanni Guler von Weineck, famoso visitatore della valle, che pubblica il resoconto del suo viaggio nel 1616, così ne scrive: “Dopo duecento passi da Desco si arriva alla frazione chiamata Torchi, perché è una distesa di pregiate vigne sino a Cattegno…” In effetti la località si trova fra Paniga, ad est, e Campovico, ad ovest, ma appare oggi assai diversa da come la poté vedere il Weineck. Un recente incendio, nel 1991, non solo, infatti, ha devastato il bel versante montuoso costituito dal fianco meridionale del Culmine di Dazio, sul lato orientale della val Toate, ma ha anche colpito irreparabilmente le case del paesino, minandone la stabilità. Due successive ordinanze, del 1991 e del 1994, hanno quindi vietato il transito sulla mulattiera che lo attraversa e che sale fino a Categno. Non è, perciò, possibile addentrarsi fra le rovine pericolanti, ma è sempre interessante avvicinarsi al limite inferiore delle case, per osservare lo scenario singolare e sinistro.
Per farlo, raggiungiamo Campovico, sempre nel comune di Morbegno, lasciando la ss. 38 dello Stelvio allo svincolo per Paniga (all’altezza di Talamona, sulla sinistra, per chi giunga da Sondrio). Invece di prendere a sinistra, per Talamona, prendiamo a destra, passando sotto un viadotto e raggiungendo il ponte arcuato di Paniga. Oltre il ponte, prendiamo a sinistra, in direzione di Campovico (m. 235). Appena prima di entrare in paese, lasciamo la provinciale Valeriana per imboccare una stradina sterrata, sulla destra, che porta al piede del monte. Qui possiamo lasciare l’automobile e cominciare a salire seguendo una carrozzabile asfaltata o la vecchia mulattiera che la taglia, fino ad incontrare il cartello che segna l’inizio della zona di transito vietato, nei presso della chiesa di S. Abbondio, che si erge su un imponente terrapieno. Non ci resta che alzare lo sguardo e guardare al triste scenario delle case in rovina.
Se, tuttavia, vogliamo guardare un po’ più da vicino senza correre rischi, ed insieme percorrere un buon tratto della mulattiera per Categno, possiamo sfruttare una variante che parte da Campovico. Portiamoci, allora, nel centro del paese, sotto la chiesa parrocchiale dedicata alla Visitazione della B. V. Maria. Possiamo lasciare l’automobile nel comodo parcheggio che si trova presso il cimitero. Dirigiamoci, poi, ad est, verso il limite del paese, nei pressi del torrente Toate, e percorriamo la pista che ne fiancheggia l’argine fino a trovare un ponticello in metallo, che ci porta sul lato opposto, dove parte un sentiero segnalato da bolli rossi. Si tratta di un sentiero davvero suggestivo, a tratti scavato nella roccia, che sale ripido, raggiungendo una casupola isolata, con un ottimo colpo d’occhio sull’aspra ed impressionante forra terminale della val Toate (l’unica valle di una certa importanza sulla Costiera dei Cech). Il sentiero prosegue fino ad intercettare la mulattiera per Categno, a monte dei Torchi Bianchi. Se percorriamo la mulattiera in discesa, cioè verso destra, potremo, quindi, raggiungerne il limite alto, occidentale: tenendoci a debita distanza, per evitare rischi, avremo, così, modo di osservare più da vicino gli scheletri delle abitazioni raggiunte dalle fiamme.
Già che ci siamo, non perderemo, poi, l’occasione per tornare sui nostri passi e proseguire (superando anche una cappelletta ed un punto panoramico dal quale si mostra la forra della val Toate in tutta la sua selvaggia bellezza) fino ad intercettare una carrozzabile con fondo in terra battuta, che, percorsa per un tratto verso destra, porta al bellissimo balcone panoramico di Categno (m. 488), dove si trova anche l’agriturismo dell’antica osteria di Categn.
La passeggiata da Campovico a Categno richiede circa tre quarti d’ora di cammino, per un dislivello in salita di circa 250 metri.
Il ritorno a Campovico può seguire un percorso diverso: tornando sui nostri passi, invece di scendere sulla mulattiera proseguiamo sulla pista, fino ad intercettare la strada asfaltata che dal ponte sull’Adda a nord di Morbegno sale a Dazio. Ci troviamo sul limite occidentale della bella piana di Dazio, fra il Culmine di Dazio, a sud, ed il versante dei Cech, a nord. Percorriamo, ora, per un tratto la strada in discesa, fino a trovare, sulla sinistra, il cartello che indica “Cermeledo”. Dopo aver visitato la chiesetta di San Nazzaro, che risale al 1610 e si trova, isolata dalle case della località, sulla destra della strada, un po’ rialzata, scendiamo alle case di Cermeledo, dove troviamo, sulla destra, la partenza di una bella mulattiera che prosegue nella discesa, fino alla chiesa parrocchiale di Campovico, con un fondo che alterna un bel grisc all’asfalto.
L’anello, percorso a piedi, richiede circa un’ora e mezza di cammino e comporta un dislivello di 270 metri.

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