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Corno di Mara

Qual è l’identikit della valle candidata ad essere un luogo perfetto per il convegno di forze malefiche? Deve trattarsi di una valle nascosta, piuttosto ombrosa, dall’aspetto desolato, ma non remota, né lontana dai grandi centri abitati, perché, si sa, le forze del male amano insidiare gli uomini, e non desiderano, quindi, trovare dimora troppo lontano da loro. Una valle che ha queste caratteristiche esiste, ed è la Val di Togno, appartata, brulla e misteriosa com’è, a sul lato orientale dell’imbocco della Valmalenco, a non molta distanza da Sondrio. Non a caso, quindi, l’immaginazione popolare l’ha rappresentata come ricettacolo di forze oscure, tanto che la si potrebbe considerare la valle malefica per eccellenza.
Le leggende che sono nate sul suo conto si dividono in due filoni. Il primo ce la presenta come valle delle streghe, perché qui esse si davano convegno per celebrare i loro sabba, ai quali si presentava il Diavolo in persona, con il quale avevano stretto un patto, consegnandogli l’anima in cambio di poteri straordinari. Pare che i sabba si tenessero, nelle notti classiche, come quelle di Santa Valburga e di San Giovanni, al laghetto di Painale, nella piana dell'alpe omonima, e che ad essi convenissero anche streghe dalla vicina Valmalenco.
Le streghe, infatti, venivano immaginate come donne votate al male ed in grado di danneggiare singoli uomini o intere comunità, servendosi dei poteri di controllare, almeno in parte, le forze naturali (scatenando tempeste, piogge torrenziali, grandine, fulmini, siccità e conseguenti carestie), di operare sortilegi e malefici ai danni di singoli, di cambiare le proprie fattezze trasformandosi anche in animali (gatti, topi, lupi, capre) e di volare. I crimini più efferati che venivano loro attribuiti erano relativi a bambini rapiti per essere sacrificati nei rituali di adorazione del Demonio. Tali credenze ebbero un risvolto storico sinistro, soprattutto nel secolo XVII (il più disgraziato della storia della Valtellina, percorsa da eserciti rapaci durante la guerra dei Trent’anni, sottoposta ad una dominazione spesso altrettanto rapace, quella dei Grigioni, colpita da un’impressionante sequenza di pestilenze, alluvioni e carestie): si moltiplicarono le torture ed esecuzioni di donne disgraziate, accusate di pratiche malefiche, un capitolo fra i più tristi della storia moderna europea.
Una delle più temute metamorfosi delle streghe era rappresentata da un uccello notturno dal lugubre suono, la "cavra bésüla". E' particolarmente viva, in molti paesi della Valtellina, la leggenda della “cavra bésüla”, o, nella versione maschile, del “caurabésül”. Si tratta di una capra (o di un caprone) che segnala la sua presenza emettendo un verso lamentoso e terrificante (“bésüi”, in dialetto, significa urla disumane). Il suono sinistro di qualche animale notturno poteva indurre ad immaginare la sua presenza: fatto sta che, come raccontavano un tempo i vecchi ai bambini, addentrarsi di notte in un bosco, soprattutto se si aveva la coscienza sporca per qualche malefatta, significava esporsi al rischio di vedersi comparire innanzi questo animale orripilante e famelico, presentato, di volta in volta, come manifestazione del Diavolo, di qualche strega o di qualche anima dannata particolarmente cattiva. C'è da tener presente, però, che l'originaria versione della credenza parla di "cabra bésüla”: resta la caratteristica del verso orripilante, ma lo si attribuiva non ad una capra, ma ad un uccello notturno (il succiacapre, chiamato in tedesco Hexe, che significa "strega"), dietro le cui fattezze si immaginava celata una strega. Quest'essere pauroso era segnalato anche al lago Painale in alta Val di Togno. Ce ne parla, nel bel volume "Tutto Valmalenco" (Edizioni Press, Milano), Ermanno Sagliani: "Pastori o montanari non sono mai veramente soli poiché, quando si avventurano nei luoghi più solitari della valle, incontrano personaggi soprannaturali, fauni buoni e malvagi, anime di persone senza pace, i cosiddetti "confinàa", animali che sono uomini condannati da sortilegi. Come la capra che s'incontra talvolta in alta Val Torreggio (Val del Turéc') nei dintorni della cima di Corna Rossa e che schernisce i rari viandanti a meno che essi non siano soprannaturali come lei; oppure la "cavra besula", strega in sembianza dì upupa, che di notte svolazza per i boschi ed abitualmente si raduna ad altri uccelli al lago Painale in Val Togno."
Per stemperare un po’ il clima plumbeo suscitato da queste considerazioni, volgiamo la mente al secondo filone di leggende legate alla Val di Togno, che la vuole popolata di anime che hanno meritato la dannazione eterna per essersi date, in vita, ad uno dei sette vizi capitali, la gola.


Val Painale

Il buon padre Dante ci insegna che le pene infernali obbediscono spesso al criterio del contrappasso, e nel suo Inferno immagina i golosi immersi in una melma fetida. Più mite sorte hanno, invece, i golosi della Val di Togno, condannati in eterno a cibarsi della poca erba offerta dai magri pascoli della valle. I vecchi assicurano che, all’ultimo rintocco della mezzanotte, la valle, da Ca’ Brunai, nel suo settore mediano, fino all’alpe Painale, che la chiude, si popola di ombre misteriose, anche nella fattezza di capre, che si avventano, fameliche, su quei cespugli che non potranno mai spegnere la loro fame: sono le anime dei golosi, qui confinati e condannati a cibarsi dei magri cespugli d'erba amara.
E' chiara la logica del contrappasso: ti sei strafogato da vivo, ora patisci la fame in eterno. Una diversa versione vuole che “verso la metà di agosto di ogni anno si diano convegno le anime dei ricchi sondriesi per intrecciarvi ridde diaboliche, volar per l’aria su tronchi d’alberi, rotolar macigni e frantumarli con enormi mazze, e far altre follie consimili” (Guida alla Valtellina del CAI di Sondrio, 1884).
Ecco, sulla medesima leggenda, di nuovo Ermanno Sagliani (op. cit.): "Qualora un viandante si trovasse a percorrere di notte il sentiero che dal lago Painale conduce a Cà Brunai, nel momento in cui la campana della distrutta chiesa di S. Eusebio in Sondrio suona i rintocchi della mezzanotte, potrebbe sentire uno strano rumore come di capre intente a brucare. Le ombre che lo attorniano sono in movimento e se egli tenderà l'orecchio e aguzzerà la vista vedrà pallidi fantasmi strappare l'erba rada di quei pascoli aridi e cibarsene. La Val di Togno è infatti uno di quei luoghi infernali dove coloro che da vivi furono golosi vengono mandati in morte a scontare il loro peccato nutrendosi di quel cibo miserabile; l'erba della Val di Togno non cresce mai abbondante".  
Anche Giuseppina Lombardini (cfr. Ezio Pavesi, "Valmalenco", Cappelli Editore, 1969, pg. 180), parla di questa leggenda, secondo la quale dopo i rintocchi di mezzanotte della campana della distrutta chiesetta di S. Eusemio a Sondrio, sulla mulattiera che da Ca' Brunai porta al laghetto di Painale le spettrali ombre dei golosi sondriesi si affollano per divorare avidamente la scarsa erba. Ed Aurelio Garobbio, in "Montagne e valli incantate" (cappelli editore, Rocca S. Casciano, 1963, pgo. 145) aggiunge che i fantasmi dei ricchi sondriesi escono a mezzanotte dalle case Botterini, Sassi, Lavizzari e Sertoli, dal Cimitero, dall'Ospedale e dall'Enologica Valtellinese, e si avviano su per la Valmalenco, aggrappandosi a rupi ed arbusti, divorando erbe e vermi, con una voracità spaventosa.
Ma c'è di più. Si racconta anche (e la leggenda è menzionata nel già citato volume di Lina Rini-Lombardini "In Valtellina - Colori di leggende e tradizioni", Sondrio, 1961, pg. 50) di un'eco potente, che talvolta si ode fra le gole della valle, simile ad un urlo terrificante. Un urlo che ha qualcosa di umano, ma anche qualcosa di mostruoso. Ecco come si spiega: una leggenda racconta di un enorme gigante, che nessuno, o quasi, ha mai visto. Sua è quella voce, suo è quell'urlo, che tiene lontano tutti coloro che vorrebbero aggirarsi curiosi nelle più remote lande, che sono solo sue.
Sulla testata della Val Painale (alta Val di Togno) si colloca poi, quasi defilato, sulla sinistra, il pizzo Scalino, una presenza, peraltro, perfettamente intonata allo scenario della valle dei misteri per eccellenza perché è un monte magico. Il mistero dei misteri è quello del tempo, ed una nota leggenda (riportata nel volume "La Valtellina, colori di leggende e tradizioni", di Lina Rini-Lombardini) vuole che il pizzo Scalino sia, in realtà, un castello, che ospiterebbe, nei suoi nascosti recessi, una sorta di orologio che regola la scansione stessa del tempo. Da tale castello, nelle notti di plenilunio, antichi cavalieri tornerebbero a cavalcare i loro fieri destrieri, contendendosi lo sguardo ammirato di dame d'altri tempi ed ingaggiando nell'aria duelli senza fine. Senza fine, come il tempo.
Un'ultima, curiosa leggenda ha come scenario il monto meno famoso monte Ometto, sempre in Val di Togno (ma potrebbe trattarsi anche di una cima sul limite occidentale della Val Grosina). Ne è protagonista Michelozzo, signore di Grosio, assai presuntuoso. Credeva di essere invincibile, di sapersi trarre da ogni impaccio, e se ne stava così, pieno di sé, nel suo castello. Una sera dimenticò di dire le preghiere, ed il diavolo piombò nella sua camera, nella torre del castello, portandoselo via, in un vorticoso viaggio aereo nelle tenebre profonde. Poi venne il momento di lasciarlo, perché la notte volgeva al termine. ma prima di farlo, il diavolo gli rivolse queste parole beffarde: "Prova, ora, tu che credi di poter tutto, a tornare al tuo castello. Provaci, ometto!"
Michelozzo, senza sapere come, si ritrovò in cima ad un monte che precipita a picco sulla Val di Togno. Non sapeva dove fosse, né come tornare alla propria dimora. Capì, allora, quanto fosse debole, e bisognoso d'aiuto. Così, con umiltà, pregò i Santi che lo aiutassero. Venne S. Michele, e Michelozzo cadde ai suoi piedi, ringraziandolo. Il santo lo riportò a volo al suo castello. Aveva capito la lezione: l'uomo che confida solo nelle sue forze è uno sciocco. Da allora divenne saggio ed umile. Il monte sulla cui cima si era ritrovato venne chiamato Ometto, per ricordare la piccolezza dell'uomo.
Come se non avesse già di suo motivi per essere considerata la valle di misteri per eccellenza, la Val di Togno ha dovuto importarne anche da altri luoghi. Dai maggenghi e dagli alpeggi di Albosaggia, per la precisione. Il legame fra Val di Togno ed Albosaggia è storicamente noto: dal paese orobico vengono, dal secolo XVII, gli alpeggiatori che caricano la Val Painale. Ma c’è un altro legame, ben più oscuro, che sfugge all’occhio indagatore dello storico, ma che non ha mancato, in passato, di alimentare le paure in questa valle. Tutto cominciò, appunto, nella Val Mani, un vallone che scende dal fianco orientale della Valle del Livrio, più o meno al suo ingresso, e che la strada che sale a San Salvatore attraversa. Dicono, oggi, gli etimologi che Mani si riferisce alla voce dialettale “mani”, cioè “lamponi”. Ma come possiamo calpestare la scienza dello storico Francesco Saverio Quadrio, che, invece, riconduce il nome ai ben più nobili Mani, antichissime divinità pagane? La leggenda della Val Mani gli dà ragione. Essa ha come protagonisti appunto questi spiriti oscuri, che abitavano la valle cui li lega il nome, ma ne uscivano, spesso, a danno dei Cristiani, detestati per aver messo al bando, con i culti pagani, anche il loro culto.
Eccoli, allora imperversare su campi ed alpeggi: con il loro fetido fiato li rendevano brulli e desolati, prosciugavano le mammelle delle mucche, rendevano difficile perfino alle donne concepire i figli. Il loro alito pestifero diffondeva ovunque morte e desolazione. I contadini, disperati, si rivolsero, un giorno, a quel sant’uomo di don Sebastiano, parroco di Albosaggia. Questi salì ai maggenghi della Valle del Livrio, impartendo su ciascuno la più solenne benedizione ed intimando, a nome dell’Unico Dio Onnipotente, a tutti gli spiriti immondi di lasciare quelle terre. Piantò anche tre croci, come presidio permanente contro il male. La fama della sua santità non era infondata: davvero quell’uomo era un uomo di Dio, ed i Mani dovettero lasciare la valle, che rifiorì, tornando a nuova vita.
Tornato alla sua chiesa di S. Caterina, don Sebastiano passò, prima di coricarsi, nell’ossario, per recitare l’ufficio dei defunti (era la prima settimana di novembre). Acceso un cero, cominciò a leggere dal breviario alla sua tenue luce. Poi, d’improvviso, un refolo gelido spense la fiamma, lasciando l’ossario in una oscurità inquietante. Il pio sacerdote capì subito che non si trattava di un naturale colpo di vento ed intuì la presenza del male. Non tremò, tuttavia, la sua mano, ma, riposto quietamente il breviario, si volse verso l’ingresso, dove intravide, contro il debole chiarore delle stelle, una folla di oscure figure. Non se ne vedeva il volto, si distingueva appena la forma, che si sarebbe detta vagamente umana, ma deforme. Poi, oscurità da oscurità, una figura parve farsi avanti. E parlò: “Voi, don Sebastiano, in nome del vostro Dio ci avete cacciati. Ma non avete il potere di annientarci. Ed ora ascoltate bene quel che abbiamo da dire: non ce ne andremo, né vi lasceremo mai in pace, se prima non ci direte dove dobbiamo andare”. Il parroco rimase per qualche istante smarrito: non aveva con sé alcuna croce, non acqua santa con la quale esorcizzare anche quel luogo. Si rese conto, dunque, che non sarebbe mai uscito dall’ossario se non avesse in qualche modo compiaciuto il desiderio di quegli spiriti malvagi. Pensò un attimo, pensò al luogo nel quale avrebbero fatto il male minore. “In Val di Togno, andatevene in Val di Togno ad appestare erbe ed animali”, disse alla fine. E quelli, muovendosi insieme, come lugubre processione, se ne andarono. Da allora non si videro più sul versante orobico, ma in Val di Togno la loro influenza pestifera cominciò a farsi sentire, e si fa sentire ancora, perché si attende un nuovo don Sebastiano che abbia la sufficiente statura di santità per porvi fine.
Ad aggiungere un ultimo tocco di mistero a questa valle, se ce ne fosse bisogno, annotiamo un'ipotesi da non scartare a priori: forse in tempi incommensurabilmente lontani volteggiavano alti sui suoi ripidi versanti i draghi. Motivo? La Corna Mara, o Corno di Mara (m. 2807) ne presidia il fianco sud-orientale. Ebbene, Remo Bracchi, nell' "Inventario dei Topinimi Valtellinesi e Valchiavennaschi - Montagna", scrive che il toponimo "Mara" "nasconde forse la raffigurazione di un drago primordiale": esso deriverebbe, infatti, dalla radice prelatina "mara", che ha generato nomi di diversi insetti con caratteristiche demoniache, e che si trova anche in voci europee che significano "incubo" ("nightmare", in inglese, "cauchmare", in francese, "mara" nell'alto tedesco).
Bene: da quanto raccontato parrebbe sconsigliabile salire in Val di Togno. In realtà non è affatto così. Per visitare la valle, ci si offrono diverse possibilità: si può sfruttare la carrozzabile che sale da Arquino (chiusa al traffico dei mezzi non autorizzati), oppure il sentiero che parte da Spriana, in Valmalenco.
La soluzione più interessante, però parte da Carnale, maggengo panoramico posto a circa 1250 metri e raggiungibile facilmente da Montagna in Valtellina. Le baite sono poste su un dosso che guarda ad un lato alla Valmalenco, dove è visibile fra l’altro, sulla destra, il pizzo Malenco, dall’altro alla catena orobica, chiusa dalla piramide del monte Legnone. Superate le ultime baite, seguendo le indicazioni per la Val di Togno ci si addentra in un bel bosco, grazie ad un sentiero ben marcato dove si trovano anche una sorta di porta nella roccia ed un punto atrezzato dove sostare per gustare la tranquillità dei luoghi (si tratta, infatti, di un percorso poco battuto).
Il sentiero, sul quale si trova qualche rado bollo viola e giallo, sale fino a circa 1400 metri e si mantiene per un po’, con qualche saliscendi, su questa quota, finché giunge ad aggirare un fianco roccioso, con un passaggio esposto, ma protetto, cominciando poi a scendere, fino a raggiungere un ampio corpo franoso. Nella discesa si passa sotto una parete a picco, che sembra incombere minacciosa sul capo. Superato il corpo franoso, il sentiero percorre un ultimo tratto nel bosco e raggiunge un ponticello, che permette di attraversare il torrente Antognasco, portandosi sul lato sinistro (per noi) della valle, dove, in breve, raggiungiamo il rifugio di Val di Togno (m. 1305), al quale sale anche la carrozzabile che parte da Arquino.
Dalla carrozzabile si stacca, sulla sinistra, una strada sterrata tracciata di recente, che raggiunge una bella mulattiera la quale, a sua volta, sale alle baite di Ca’ Brunai, a 1376 metri. La mulattiera prosegue, sempre sul lato sinistro (per noi) della valle, e porta nella sua sezione mediana, dove un certo senso di desolazione è temperato da una bella pineta.
Salendo ancora, si raggiunge l’ampio pianoro dell’alpe Rogneda (m. 1668), dal quale è ben visibile, sulla destra per chi sale, il fianco nord-occidentale del Corno di Mara. Al termine del pianoro si giunge all’alpe Carbonera, praticamente contigua all’alpe Rogneda.
Proseguendo nel cammino, si entra per un tratto nel bosco, per poi uscirne di nuovo e raggiungere la terza alpe di questa lunga valle, l’alpe Guat (m. 1816), dove un ponticello permette di passare sul lato opposto della valle per raggiungere la casera. Per proseguire nella salita bisogna però rimanere ancora sul lato sinistro della valle, attraversando canaloni che, in primavera, possono scaricare parecchia neve. È ormai prossimo il gradino terminale della valle, nel quale il torrente si è scavato una stretta porta d’uscita. Ed è proprio attraverso questa porta che si insinua il sentiero, prima di raggiungere il limite dell’ampio pianoro finale, quello dell’alpe Painale (o della Val Painale, che dir si voglia).
Il pianoro, dominato dalla punta Painale (m. 3248), è spesso, d’estate, acquitrinoso, e deve essere percorso seguendo i bolli rossi, tenendosi approssimativamente al suo centro. Sul lato sinistro spicca, in fondo alla valle, l’inconfondibile profilo del pizzo Scalino (m. 3323), alla cui sinistra è posto il passo degli Ometti, che permette di scendere al rifugio Cristina, in Valmalenco. Superato il primo tratto del pianoro, lo sguardo è attratto dal poderoso pizzo di Gombaro (o pizzo Canino), che si erge a guardiano proprio al centro della valle; sulla sua sinistra, defilato ed arrotondato, il pizzo Scalino, defilato ed arrotondato, non ruba la scena alle rimanenti cime; sulla destra, infine, l'elegante triade della cima Corti, della vetta di Ron e della Corna Brutana chiude la suggestiva corona di vette sulla testata della Val Painale. Procedendo più o meno diritti (radi segnavia bianco-rossi) e superando dossi e pianette, si giunge, infine, in vista del rifugio Bruno De Dosso (m. 2119), del CAI di Sondrio.
La salita da Carnale al rifugio impone di superare poco più di 1000 metri di dislivello, e richiede circa tre ore e mezza di cammino. A poca distanza dal rifugio partono due sentieri (tracce assai labili, per la verità): una piega a sinistra, aggira a monte alcune formazioni rocciose e compie una traversata fino al passo degli Ometti, mentre la seconda sale, diritta, ai piedi dell’evidente canalone di sfasciumi che, sulla sinistra della punta Painale, conduce al passo del Forame, dal quale si scende in alta Val Fontana, al rifugio Cederna-Maffina.

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