Folletti e dispetti...
Nell’immaginario
popolare delle diverse culture europee non manca mai il riferimento
ad una tipologia di piccoli esseri che si colloca in un territorio vago
ed indefinito, fra il bene ed il male. Si tratta di esseri sfuggenti
ed imprevedibili, che di solito si denominano folletti, con un termine
che, nella sua radice, ne segnala la piccola e bizzarra follia. Chi
sono? Come sono? Cosa fanno? Leggende di paesi diversi ci offrono le
indicazioni più varie.
In Valtellina i folletti per eccellenza sembrano essere i “maghét”
(o "maget", cioè i piccoli maghi) che dimorano in Valfurva. Non ci si lasci
ingannare dal nome simpatico ed accattivante (sono, infatti, in tutto
e per tutto maestri nell’inganno): la loro indole non è
benevola e la loro piccola follia, davvero multiforme e stravagante,
diventa spesso una minaccia per pastori e contadini, vittime dei loro
dispetti, che arrecano veri e propri danni e sono fonte di pericoli.
Aurelio Garobbio, uno dei maggiori studiosi dell’universo immaginario dell’arco alpino, il quale, nella bella raccolta “Montagne e Valli incantate”, (Rocca San Casciano, Cappelli, 1963, pp. 145-146), scrive: “Oltre ai giganti, sulle montagne e nelle valli dell'Adda stanno i maghi ed i folletti. In Valfurva i Maget cavano nascostamente l'oro della val d'Uzza e colgono il momento in cui il temporale impazzisce per scendere veloci e fuggire in Valcamonica con i tesori arraffati. Capita cosi che nella furia travolgano ponti e facciano crollare sentieri. Sovente i Maget si dilettano a smuovere sassi precipitandoli dall'alto sugli uomini e sugli armenti, quando non provocano valanghe.”
Il loro aspetto è indeterminato: sono talmente rapidi e guizzanti,
che non li si può descrivere, si può dire solo che sono
rossi ed assomigliano alle faville di un fuoco notturno, che si disperdono, volteggiando rapidissime, e finiscono non si sa dove, perdendosi nel
buio impenetrabile. A rendere ancor più fitto il mistero sulle
loro reali sembianze contribuiscono anche i magici poteri che permettono
loro di apparire sotto forme diverse, vuoi di gallo, magari zoppo e
spelacchiato, vuoi di ricco e distinto signore, o addirittura di canuto
e venerabile eremita, che si ritira a meditare in luoghi remoti.
Altrettanto
indeterminati sono i loro costumi. Per quel poco che se ne sa, sono
comunque davvero bizzarri: sembra, infatti, che amino cibarsi di funghi
crudi (i “fungiàt”, cioè i cercatori di funghi
più appassionati e capaci, trovano spesso piccoli frammenti di
fungo nel cuore dei boschi, i resti del pasto dei maghèt) e che
sappiano comunicare con gli insetti (è accaduto, infatti, che
qualche maghét, diciamo così, atipico, preso da insolito
istinto benevolo nei confronti di un pastore, gli abbia insegnato il
linguaggio degli insetti).
I maghèt sembrano non aver mai pace: si muovono rapidi ed invisibili
fra gli uomini, e suscitano discordie e liti. Sembrano, inoltre, sempre
in fuga: temono, in particolare, le immagini sacre, il loro sguardo,
e per questo passando sempre dietro le cappellette che gli uomini hanno
eretto per disperdere le potenze malefiche. La loro dimora sono i boschi
più alti, i luoghi più impervi, e di lì fanno rotolare
i massi giù, verso il fondovalle, e d’inverno provocano
rovinose valanghe. Sono, insomma, una costante minaccia per gli uomini
ed il bestiame al pascolo.
Scatenano, in particolare, la loro malignità durante i temporali,
di cui approfittano per sradicare ponti, attività che sembrano
prediligere (il ponticello sul Frodolfo in località Uzza è
il loro bersaglio preferito). Ma anche quando il sole estivo splende
nell’aria quieta e ferma, tendono insidie agli uomini, in modo
subdolo: appaiono, nel cuore del caldo meriggio, sulle rive dei torrenti,
ed offrono agli assonnati pastori un diamante incastonato nella corolla
di un fiore, immagine ingannevole della facile felicità, simbolo
della tentazione che si insinua nel cuore dell’uomo. Chi
non le resiste, va incontro a rovina, e viene inghiottito dai gorghi
del torrente. Le nonne raccomandano ai nipoti di guardarsi da questi
esseri insidiosi, recitando, qualora ci si imbatta nei loro subdoli
tranelli, la preghiera all’Angelo custode. Guai, invece, a lasciarsi
scappare imprecazioni come “Diavolo!”: nominare il maligno
in loro presenza significa vederlo comparire in sette grandi balzi,
ed allora l’incauto se la vede davvero brutta.
Secondo alcuni, esisteva un vero e proprio regno dei maghèt,
nascosto nel cuore dei boschi della Rèit, il monte che presidia,
a nord, la bassa Valfurva. Questo monte era denso di misteri: si racconta,
infatti, che le anime degli uomini avidi vi fossero confinate, dopo
la morte, per espiare le loro colpe e guarire da quella vera e propria
febbre suscitata dall’oro. Erano, infatti, costrette a cavare
l’oro dal cuore del monte, oro che, però, i maghèt,
lasciandole letteralmente costernate, precipitavano giù, durante
i temporali, nel Frodolfo, perché sparisse nei gorghi del torrente
in piena. Questo faceva, poco a poco, guarire le anime dalla loro malattia,
la virgiliana “auri sacra fames”, cioè l’esecrabile
desiderio dell’oro: raro caso, questo, in cui l’insopprimibile
desiderio di far dispetti, proprio dei maghèt, tornava a vantaggio
degli uomini, anche se defunti.
Non si deve, però, pensare che questi esseri godessero di un’assoluta
libertà e potessero sempre andarsene dove volevano, come le scintille
di un fuoco: se sfuggivano agli uomini, che non li potevano catturare,
non sfuggivano al potere di esseri malefici più grandi e forti. In
particolare, si racconta che alcuni maghèt di Valcamonica erano
dominati da un potente e malvagio orco che viveva in quella valle. Costui,
mosso da un’avidità insaziabile, li costringeva a scavare
incessantemente sulle pendici dei monti di Val d’Uzza, per cavarne
l’oro (eccolo di nuovo, il fatale metallo, protagonista di una
credenza popolare).
Non era, la loro, una condizione invidiabile: sul far dell’alba,
infatti, si dovevano mettere di buona lena in cammino, con il piccone
ed il sacco in spalla, per raggiungere i monti della Val d’Uzza,
dove, per l’intera giornata, cavavano, con gran fatica, l’oro
destinato alla caverna del tirannico orco, la cui ricchezza cresceva
a dismisura. C’era, quindi, da capirli se, sulla via del ritorno,
sfogavano il loro malumore e la loro rabbia provocando danni di ogni
tipo (ponti divelti, sentieri danneggiati, torrenti deviati, massi fatti
rotolare sulle povere baite dei contadini). Ma i contadini della Valfurva
non potevano essere troppo comprensivi, perché i maghèt
erano diventati, per loro, una minaccia che non poteva più essere
sopportata.
Come fermarli? Tentarono con le trappole, ma a nulla valsero, perché
questi esseri erano troppo veloci per essere catturati in questo modo.
Si rivolsero allora ad un anziano, il più saggio, che conosceva
anche il modo per controllare gli elementi della natura. Costui comprese
che la furia di questi esseri malefici poteva essere fermata solo da
una più violenta furia, quella di un tremendo temporale. Scatenò,
quindi, con i suoi poteri, un temporale di inaudita violenza, proprio
mentre i maghèt si accingevano a tornare Valcamonica: questi
vennero, così, travolti dalla furia degli elementi e sparirono
nel vortice delle acque del Frodolfo, schiacciati da quegli stessi massi
che per tanto tempo si erano divertiti a scagliare a valle. Di loro
non restò che un segno: proprio là dove il torrente se
li era portati via, comparvero piante di ginepro, i cui aghi erano simbolo
della malvagità di quegli spiritelli, come se questi avessero
voluto lasciare agli uomini un ultimo monito: state attenti, perché
possiamo sempre tornare.
E
l’orco? Già, l’orco: non vedendo tornare i suoi schiavetti,
al termine di quella terribile giornata, se ne stette nervosamente sulla
soglia della sua caverna, interamente rivestita d’oro. Si sa che
l’oro attira i fulmini, e fu proprio un fulmine di enorme violenza
a colpirlo. Non fu, però, incenerito, ma trasformato in una grande
roccia, mentre la montagna fu scossa da sussulti che non si erano mai
avvertiti, finché l’ingresso della caverna venne interamente
ricoperto da enormi massi, che la resero inaccessibile. Il tesoro è
ancora là, dicono, nascosto, come un sogno ingannevole, come
un’illusione che non cessa di tentare gli uomini.
Di questo e di altri prodigi di Valfurva possiamo leggere nella pregevole
raccolta dattiloscritta di leggende intitolata “Leggende in Alta Valtellina”,
curata, nel 1998, da Maria Pietrogiovanna, a Valfurva. L'epopea dei maghét è, poi, raccontata in diversi testi: lo studio "Usi e costumi del bormiese" (Ed. magnifica Terra, II ed. , 1967) di Glicerio Longa, la raccolta "In Valtellina - Colori di leggende e tradizioni" (Ramponi, Sondrio, 1961, pg. 26) di Lina Rini-Lombardini, la raccolta "Bellezze e leggende della terra di Bormio" (Bonazzi, Tirano, 1926, pg. 17-18), della medesima Lombardini e il volume "Montagne e valli incantate" (Rocca San Casciano, 196, pp. 145-146), di Aurelio Garobbio.
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