Lago di Malghera

Punti di partenza ed arrivo
Tempo necessario
Dislivello in altezza
in m.
Difficoltà (T=turistica, E=escursionistica, EE=per escursionisti esperti)
Malghera-Lago e passo di Malghera-Passo Rovano-Lago del Drago-Lago dei Laghetti-Malghera
4 h
700
E
SINTESI. Da Grosio, superata la chiesa di San Giuseppe e la successiva caratteristica “strecia de Ilda”, imbocchiamo, sulla sinistra (indicazioni per Ravoledo e Fusino) la carrozzabile della Val Grosina, che, superata la frazione di Ravoledo, dopo pochi tornanti, si addentra sul suo fianco orientale, passando per San Giacomo. Raggiunto il nucleo di Fusino, in corrispondenza dello spiazzo davanti alla chiesetta (m. 1203, il punto più comodo dove lasciare l’automobile: per proseguire in tutte le direzioni si deve inoltre acquistare un pass giornaliero), prendiamo a sinistra, imboccando la stretta stradina che porta al ponte sul torrente Roasco, poco a valle rispetto alla muraglia della diga di Fusino dell’AEM. Sul lato opporto la stradina piega leggermente a sinistra e comincia a salire su un ripido versante di prati e comincia un lungo traverso sul fianco della Val Grosina Occidentale, superando diversi nuclei e portando a Campo Pedruna. Nel tratto successivo la pendanza si fa molto severa e la stradina termina a Malghera (m. 1937), dove si trova il rifugio-ricovero omonimo, presso il santuario della Madonna del Muschio o della Neve. Voltiamo le spalle al santuario: vedremo davanti a noi tre piste: quella di sinistra è la carrozzabile, quella al centro scende ad un baitone mentre quella di destra, la meno marcata, sale gradualmente in Val Malghera, e ci incamminiamo seguendola verso sud-ovest, fino a quando termina lasciando il posto ad un sentiero poco evidente nei primi metri, che scende subito al torrente e prosegue, ben più marcato, sul lato opposto. Dopo una sequenza di tornanti il sentiero si riavvicina al torrentello e si affaccia ad una soglia per la quale accediamo ad un dolce falsopiano erboso. Restando a destra di un modesto cordone morenico o percorrendone il filo giungiamo in breve all’ampia conca che ospita il lago di Malghera (m. 2316). Passando a sinistra della riva meridionale del lago (sul lato opposto vediamo il baitello del ricovero Malghera), ritroviamo, piegando leggermente a sinistra (dir. sud), il sentiero, che sale a ridosso, sulla sinistra, di un salto roccioso (dir. sud-ovest). Seguiamo alcuni ometti, attraversiamo un pianeggiante corridoio erboso, a quota 2415 metri, a destra di una conca occupata da sfasciumi, e ci portiamo all’ultimo gradino di roccette, appena sotto la sella del passo, al quale saliamo facilmente su traccia di sentiero verso nord-ovest: siamo al passo di Malghera (m. 2542). Seguendo l’indicazione di una freccia arancione, appaiata da un tratto giallo, che ci invita a risalire il versante alla nostra destra (nord), non troppo ripido, ma un po’ esposto in qualche tratto. Saliamo così al pianoro del passo Rovano (m. 2650). Seguendo una traccia di sentiero che descrive un ampio arco verso destra, scendiamo al lago del Drago (m. 2588). Passando sopra un saltino di roccia che cade su buona parte della riva e puntando alla bocchettina che si trova ad est del laghetto, cerchiamo un largo sentiero che termina proprio qui, di origine chiaramente militare. Il sentiero scende in diagonale verso sinistra e ci porta all'ampia piana che ospita il lago dei Laghetti (m. 2428). Proseguendo nella discesa, passiamo a valle della sua sponda orientale e proseguiamo prendendo leggermente a destra, passando appena sotto un baitello, fino a trovare una debole traccia che ci accompagna nella facile discesa che, descrivendo un nuovo arco verso destra, ci riporta all’ampia piana del lago di Malghera, dove ci rincongiungiamo con l'itinerario di salita.

L’escursione che viene qui proposta, e che ha come scenario la Val Malghera (una delle tributarie della Val Grosina Occidentale) ed il suo sistema di laghetti, è tanto poco nota quanto interessante e suggestiva. Non presenta difficoltà, né richiede grande impegno, ma non deve essere presa sottogamba, perché tocca luoghi densi di inquietante mistero, che sembrano oltrepassare i limiti di ciò cui all’uomo è concesso accedere. La intraprenderemo, dunque, a nostro rischio e pericolo, accompagnati dalla speranza che nessuna presenza arcana irrompa dalla profonda solitudine per punire la nostra empia curiosità. Punto di partenza è lo splendido nucleo di Malghera, sul fondo della Val Grosina Occidentale. Raggiunta Grosio ed oltrepassato il centro del paese, troviamo, a sinistra, le indicazioni per la strada che sale in valle (indicazione per Ravoledo), raggiungendo innanzitutto Ravoledo (m. 864), frazione che si incontra dopo 2 km di salita. All’uscita da Ravoledo proseguiamo nella strada che, dopo qualche tornante, valica la dorsale orientale della valle (che scende dalla cima Rossa al monte Storile) e comincia ad addentrarsi sul suo fianco, in corrispondenza della frazione di San Giacomo (m. 1054), la cui bella chiesetta risale al secolo XIV. Puntando a nord, la strada ci porta a Fusino (fusìn), a 9 km da Grosio (m. 1203), posto nel punto in cui la valle ospita due invasi artificiali dell’AEM, appena a monte del punto in cui la val Grosina occidentale si congiunge con il solco principale della valle. Una sosta nel piazzale della chiesa della Madonna delle Valli (costruita nel 1966 al posto di una cappelletta della Madonna del Buon Consiglio) ci permette di osservare l’imponente muraglia della diga superiore.
Imbocchiamo, ora, la deviazione a sinistra per Malghera: si tratta di una strada dalla carreggiata piuttosto stretta, che ci porta nel cuore della valle, per poi risalire sul fianco settentrionale della Val Grosina Occidentale (chiamata localmente “val de dòsa”). Questa strada ci porterà fino all’alpe di Malghera, ad 11,2 km da Fusino, con un tracciato quasi interamente in asfalto e senza tornanti. La carreggiata è piuttosto stretta, per cui procediamo con attenzione. Nella traversata oltrepassiamo i prati della località Dosso (dos giuèl, m. 1270) ed aggiriamo il largo fianco che dal monte Alpisella (m. 2756), a nord, scende alla forra del Roasco occidentale. Possiamo osservare la diversa natura dei due versanti della valle: quello alla nostra destra, il settentrionale, è caratterizzato da ampi prati, interrotti da macchie di larici, ontani, betulle, robinie e noccioli; il versante opposto, invece, per la diversa esposizione al sole, è ricoperto da fitte abetaie. Vi si susseguono, da est, gli imbocchi delle laterali Val Mozzana, Valle Piana, Val Guinzena (in territorio del comune di Grosotto) e Val di Pedruna. Dopo circa 3 km di percorso, raggiungiamo la località Dossa (dòsa, m. 1350, maggengo citato già in un documento del 1340), dove la strada si avvicina al torrente mentre, sulla destra, si stacca una pista che sale sul fianco meridionale del monte Alpisella e raggiunge l’alpe Biancadin, o Biancadino, in cui si trova l’omonimo rifugio (m. 1980). Rimanendo sulla strada principale, raggiungiamo Sacco (sach, m. 1617) e Campo Pedruna (chèmp, m. 1703), a 7,5 km da Fusino, dove, lasciati alle spalle i densi boschi, lo scenario è ormai dominato dai pascoli di alta quota. Mancano 3,7 km dalla meta, Malghera: per raggiungerla, la strada comincia a volgere in direzione nord-ovest (sinistra), dopo aver varcato il torrente che scende dalla Valle di Pedruna (riàsc de pédrùna). Superiamo anche le Baite della Pirla (denominate così perché si trovano presso una bella cascata, la “pirla” del “ruasch de val de sac”, gemella della “pirla” di Eita), a 1830 metri, e giungiamo al punto in cui si apre, a nord, il solco della valle di Sacco (val de sac), nella quale si prolunga la Val Grosina Occidentale. Lo scenario è ampio, luminoso, bellissimo. La costiera che scende dalla punta di Sena (m. 3074) separa la valle di Sacco dalla valle di Malghera.


Rifugio-ricovero Malghera

Raggiungiamo il nucleo di baite di Malghera (malghèra, alpe comunale, citata già in un documento del 1435), dopo aver superato su un ponticello anche il torrente Roasco occidentale (ruasch de val de sac). Ci accolgono il ricovero Malghera (m. 1937; per informazioni tel. allo 333 925966 - Giacomo Besseghini - sito web: www.rifugiomalghera.it) e, in fondo, separata dalle baite, il santuario della Madonna della Misericordia (Madòna de la néf), presso il quale possiamo parcheggiare l’automobile. Il santuario, chiamato anche della Madonna del Muschio o della Madonna della Neve, fu edificato nel 1888, dal nucleo di una cappella preesistente (1836), eretta per ricordare il miracolo dell’apparizione della Vergine, sul muschio di una roccia, ad un pastorello, nel 1750. Questi era spaventato per un furioso temporale che si era scatenato improvviso, sorprendendolo allo scoperto, e, proprio mentre temeva di essere, da un istante all’altro, colto da un fulmine, vide, un po’ più in alto, su un soffice tappeto di muschio, in un anfratto della roccia, una figura disegnata nettamente fra i licheni della roccia: era la Madonna che, presa da pietà per quel povero ragazzo, gli era apparsa, rassicurandolo. Egli fu preso da profondo stupore, dimenticò ogni timore e, cessata la burrasca, corse a raccontare a tutti quanto aveva visto. Conoscendo la sua grande sincerità e semplicità d’animo, tutti gli credettero, e la notizia del miracolo si diffuse.
Da allora tutti gli alpigiani di Malghera professarono una particolarissima devozione alla Madonna della Misericordia, protettrice dei pastori e delle genti d’alpe, tanto da costruire una cappella, nel 1836, la chiesa, nel 1888 ed infine l’elegante campanile con pietre a vista, nel 1910. Alla sua edificazione contribuirono tutti i Grosini, che, riconoscendo questo luogo come punto di incontro della devozione dell’intera comunità, costituirono, a tal fine, una fabbriceria e costruirono un edificio per ospitare gli operai (quello che oggi è diventato il rifugio Malghera, sopra citato). Una chiesa così elegante in un luogo, tutto sommato, così solitario suscita un’impressione singolare, soprattutto se vista da una certa distanza (appare, infatti, più grande), e ci ricorda anche non solo la devozione delle genti della valle, ma anche la ricchezza dei luoghi. In generale la Val Grosina è stata, ed in parte è ancora, uno dei luoghi dove l’allevamento del bestiame ha, nell’intera provincia, la maggiore rilevanza. Sulla sua facciata occidentale sono state poste due targhe, una che ricorda i “gloriosi caduti del comune di Grosio nella guerra mondiale 1915-18” ed una seconda in memoria dei caduti e dispersi fra il 1935 ed il 1945. Al suo interno una targa ricorda l’elevazione della chiesa a Santuario, e reca scritto: “Noi Alessandro Macchi per grazia di Dio e della Santa Sede Apostolica Vescovo di Como assecondando i desideri del clero e di tutta la popolazione di Grosio, anche come segno di riconoscenza per aver essi procurato le corone d’oro, con cui il 1 agosto 1933, cingemmo la fronte augusta della devota effige della Vergine e del Bambino: abbiamo decretato e decretiamo: la chiesa dedicata alla Beata Vergine Madre della Misericordia, in Val di Sacco, parrocchia di Grosio, è elevata al titolo di Santuario Val di Sacco (Grosio), in occasione della consacrazione della chiesa, il giorno 18 agosto 1940. + Alessandro Macchi Vescovo di Como”.
Può essere interessante leggere come presenta questa località il valente alpinista e naturalista Bruno Galli Valerio, che vi passò il 7 agosto 1900 (da “Punte e passi”, trad. di Luisa Angelici e Antonio Boscacci, Sondrio, 1998): “La carovana, seguita dall'asino che porta i sacchi, si mette in moto verso il ramo occidentale della Val Grosina. Pascoli e boschi sfilano davanti a noi. Il fiume spumeggia in fondo alla gola. Qua e là appare qualche cascata. In quattro ore e mezzo tocchiamo i pascoli di Malghera e S. Maria della Neve (1972 m.). La leggenda vuole che la Madonna sia apparsa lassù ad un pastore, disegnata da licheni sopra una roccia. Vi hanno immediatamente costruito una chiesetta e, accanto a quella, un eccellente rifugio. E' giorno di festa e troviamo lassù molti abitanti di Grosio, Val Grosina e Poschiavo. Ci accoglie molto ospitalmente il presidente del consiglio di fabbrica (il Sig. Sassella, presidente della Fabbriceria della chiesa, ndc) e non c'è mezzo di proseguire. Si partirà domani. In buona compagnia, il tempo passa presto. Visitiamo i pascoli circostanti, la bella casera della Val di Sacco, le magnifiche mandrie di vacche che fanno della Val Grosina il centro di rifornimento della bassa Lombardia.”
Nei pressi del parcheggio troviamo l’indicazione “Malghera – 1964 m” ed una serie di cartelli escursionistici, che segnalano diversi sentieri: il 201 porta in 45 minuti al Grasso di Pedruna, in 2 ore e 45 minuti all’alpe Piana ed in 8 ore all’alpe Schiazzera (si tratta del Sentiero Italia, che giunge a Malghera, appunto, dal rifugio Schiazzera); il medesimo 201 prosegue, sul lato opposto, per la casera di Sacco (10 minuti), il passo di Vermolera (2 ore e 45 minuti) ed Eita (5 ore e 30 minuti); il 255 conduce al Bivacco Strambini (2 ore), al lago Sapelaccio (2 ore e 20 minuti) ed al passo di Sacco (2 ore e 40 minuti); il 253, infine, quello che ci interessa, porta al lago di Malghera in un’ora, al bivacco Malghera, sempre in un’ora, ed al passo Malghera in un’ora e 45 minuti. Sceglieremo un percorso ad anello, che ci consentirà di toccare tutti e tre i laghetti di Val Maghera, passando per il passo di Malghera (buchéta basa, chiamata anche, sul versante svizzero, forcola di Sassiglione), il più agevole dei valichi fra Val Grosina Occidentale e Valle di Poschiavo. Voltiamo le spalle al santuario: vedremo davanti a noi tre piste: quella di sinistra è la carrozzabile che abbiamo usato per giungere al parcheggio, quella al centro scende ad un baitone mentre quella di destra, la meno marcata, sale gradualmente in Valle di Malghera, l’ampio bacino che si apre di fronte ai nostri occhi.
Incamminiamoci su questa pista, passando nei pressi di un cippo posto a ricordo di Mariano Leggieri, guardia di finanza, che "qui cadde il 16 settembre 1890 nell'adempimento del proprio dovere". Passiamo anche a sinistra di una baita, superando poi un casello dell’acqua ed alcuni torrentelli che la tagliano, fino a giungere al punto nel quale la pista accenna ad una svolta a destra e termina, ad una piazzola, nei pressi del torrente che scende dalla Val Malghera (riasc de malghèra). Da qui parte il sentiero, poco evidente nei primi metri, che scende subito al torrente e prosegue, ben più marcato sul lato opposto. Passiamo, dunque, da destra a sinistra del torrente e cominciamo a salire con ripidi tornantini, allontanandoci gradualmente dal torrentello. Teniamo presente che l’intero anello della Val Maghera, che stiamo iniziando a raccontare, non è segnalato da segnavia, anche se, con un minimo di attenzione, non c’è davvero pericolo di portarsi fuori percorso. Il sentiero, che si snoda fra macereti, massi e pochissimi larici, con un ultimo strappo si riavvicina al torrentello e si affaccia ad una soglia per la quale accediamo ad un dolce falsopiano erboso. La traccia si fa più debole, ma non c’è problema: restando a destra di un modesto cordone morenico o percorrendone il filo giungiamo in breve all’ampia e splendida conca che ospita il lago di Malghera (lèch de malghèra o lèch di pièn, m. 2316), il primo e più grande dei tre laghetti della valle.
Lo scenario è davvero gentile e sereno. Solo una baita con pannelli solari, che vediamo sul lato opposto del lago (e che è stato riadattato a ricovero, il bivacco Malghera) ed un più modesto baitello alla sua destra denunciano la presenza umana. Non ne abbiamo ancora l’impressione, ma ci addentriamo in luoghi segnati da storie e leggende che dovrebbero incutere al viandante più di un timore. Ma, giunti fin qui, vale la pena di procedere.
Passando a sinistra della riva meridionale del lago, ritroviamo, piegando leggermente a sinistra, il sentiero, che sale a ridosso, sulla sinistra, di un salto roccioso, sempre zigzagando e destreggiandosi fra alcuni massi, fino a superare il gradino glaciale a monte del lago. Raggiunta la soglia del gradino, possiamo lanciare un’ultima occhiata al lago, che, visto da qui, appare ancora più bello, nelle sue forme regolari e nel suo colore di un blu cupo. Salutiamolo e procediamo oltre la soglia, dove alcuni ometti ci attendono per renderci certi della correttezza del percorso; seguendo il sentiero che corre lungo un rilassante e pianeggiante corridoio erboso, a quota 2415 metri, a destra di una conca occupata da sfasciumi, ci portiamo all’ultimo gradino di roccette, appena sotto la sella del passo, che peraltro si intuisce già dal pianoro. Il sentiero la attacca sul fianco sinistro e guadagna un ultimo e più modesto pianoro; alla nostra destra vediamo una piccola e simpatica pozza, mentre a sinistra notiamo alcuni grandi blocchi e, alle loro spalle, un cordone morenico che scende direttamente dal passo. In alto, verso sud, alle spalle del cordone, il pizzo Sassiglione (piz de Sasilón, m. 2841), che mostra il vasto versante settentrionale, occupato da una sterminata colata di detriti.
Ripresa la salita, passiamo ancora a sinistra di qualche roccetta, pieghiamo leggermente a destra ed infine, con un ultimo breve traverso a sinistra su sfasciumi, siamo al passo di Malghera (m. 2542), la “buchéta bàsa” dei Grosini e la forcola di Sassiglione (forcola de Sassigliòn) dei Poschiavini. Si apre un panorama non amplissimo, ma originale ed interessante. Ci attendono sul passo il cippo confinario collocato nel 1930 ed alcuni cartelli escursionistici, del CAI e del Club Alpino Svizzero. Questi ultimi segnalano che scendendo sul versante svizzero possiamo raggiungere Albertüsc in 50 minuti e Poschiavo in 2 ore e mezza. Proprio dritto davanti a noi, sul lato occidentale della Valle di Poschiavo, ecco il pizzo Scalino, che mostra un profilo insolito, con l’ormai modesto ghiacciaio che ne fascia la base. Alla sua sinistra il massiccio che culmina con la punta Painale, la più a destra; alla sua destra, infine, occhieggia la mole regale del monte Disgrazia. Si intravedono anche molte delle cime della testata della Valmalenco, ma, defilate come sono, non sono facilmente riconoscibili. Guardando in basso, infine, vediamo l’ampia spianata (plan lungh), in gran parte occupata da sfasciumi, che si fa ad infrangere, quasi, a nord (cioè alla nostra destra) contro l’impressionante salto di rocce candide che scende dal Sassalbo (sasa bianca, m. 2841), sormontato da una grande croce. Si tratta del monte che sovrasta, ad est, Poschiavo, ed è facilmente riconoscibile fra tutte le altre cime perché le rocce della sua parte sommitale, di natura calcarea, spiccano per il loro colore bianco, tanto da creare l'illusoria percezione, nella stagione estiva, di un innaturale innevamento.
Bene, è tempo di giustificare i moniti iniziali. Proprio al Sassalbo ed a tutta la zona circostante è riferita un’antichissima leggenda che vuole questi luoghi popolati dai mitici salvanchi, uomini selvatici e giganteschi dalla natura singolare ed inquietante, una variante del mito dell’homo salvadego. Possedevano una prodigiosa abilità, che ne faceva esseri tutt'altro che rozzi e crudeli. Si narra che una volta, in particolare, i salvanchi, scesi dal Sassalbo, piombarono all'improvviso sui pascoli dell'alpe Sassiglione, dove i pastori erano intenti a fare il burro. Questi, ammutoliti e sgomenti, li videro appressarsi al loro latte ed al loro siero, con quel volto così inquietante che richiamava le fattezze dell'orso più che dell'uomo. Ma non volevano far razzia, né compiere opera alcuna di violenza: erano, anzi, allegri, si rivolgevano loro con frasi in una strana lingua, mai udita, ma con tono amichevole e scherzoso. I salvanchi, messa mano agli strumenti dell'arte casearia, portarono a compimento l'opera dei pastori e confezionarono un burro eccellente e squisito, compatto e dall'invitante colore biondiccio. Rivolsero, poi, la loro attenzione al siero, dal quale trassero, con una tecnica mai vista dai pastori, cera purissima, prodotto un tempo assai prezioso. Alla fine, improvvisi com'erano venuti, se ne andarono, cantando allegre canzoni con melodie strane e bizzarre. Quando i pastori si riebbero dalla sorpresa, tentarono, e lo fecero più e più volte, di ripetere le operazioni dei salvanchi, ma non riuscirono mai a confezionare un burro altrettanto squisito e, men che meno, a trarre dal siero la cera. I salvanchi godeva però anche di fama sinistra, perché altri racconti li descrivevano come esseri feroci, capaci, in qualche caso, di aggredire contadini e pastori ed anche di mangiarseli. Ecco perché, nel cuore del loro regno, dobbiamo procedere con la massima cautela. Del resto non lontano da questo passo, appena a nord della cima di Ross, che segue immediatamente la Sasa Bianca, procedendo sul crinale verso nord, si trova una bocchetta alta che ha l’eloquente quanto sinistra denominazione di “buchéta di òs del mort”, cioè bocchetta delle ossa del morto, vicina ad una seconda bocchetta chiamata “buchéta de l’ors”. Ora, di quale morto si tratta? Una vittima degli orsi che ormai da un secolo sono scomparsi dai monti di Valtellina? Oppure una vittima dei salvanchi?
Presi da questo interrogativo, ci rimettiamo in cammino, seguendo l’indicazione di una freccia arancione, appaiata da un tratto giallo, che ci invita a risalire il versante alla nostra destra (nord), non troppo ripido, ma un po’ esposto in qualche tratto. Volgiamo, dunque, le spalle al pizzo Sassiglione e cominciamo a salire, seguendo una traccia di sentiero abbastanza continua, che si districa fra sassi mobili (qualche volta insidiosi) e magri pascoli. Il crinale, dopo il primo tratto, si allarga e diventa più tranquillo. La salita termina ad un lungo ed inatteso pianoro che si apre proprio sul crinale fra Italia e Svizzera, in gran parte occupato da pascoli: si tratta della sella chiamata passo Rovano sulla Carta Nazionale Svizzera. Siamo a 2650 metri e, percorrendo il pianoro, notiamo, più o meno al centro, una conca, nella quale è stata ricavata una piccola postazione militare. Questo ci riporta alla storia della prima guerra mondiale, durante la quale il generale Cadorna, temendo che la Svizzera, neutrale, concedesse agli Austro-Ungarici il passaggio in Valle di Poschiavo, e quindi la possibilità di bypassare il sistema difensivo dello Stelvio, dell’Ortles, del Cevedale e dell’Adamello, costruì, sul versante orobico, ma anche su quello retico, un capillare sistema di fortificazioni e postazioni per far fronte alla minaccia, che di fatto non si concretizzò mai.
Procedendo di pochi passi verso il versante italiano, ecco, improvvisa, sotto di noi, un’apparizione soprendente: un laghetto dalla forma tondeggiante, ben nascosto nell’incavo di rocce rossastre levigate dall’azione glaciale. Visto da qui sembra un grande e cupo occhio. Non stupisce che sia stato chiamato “lèch del drèch”, cioè lago del Drago. Pare proprio, infatti, un occhio di drago. E l’occhio non è solamente un aspetto del drago, ma ne è l’essenza. Drago, dal greco “dràkon”, è, infatti, l’animale che fissa lo sguardo, che vede con sguardo acuto in lontananza. Per questo molto spesso è l’animale che viene posto a vegliare tesori. Le Alpi sono state sempre considerate dimora prediletta dei draghi: lo attesta anche l’illustre dottore della Chiesa, S. Agostino d’Ippona. Fino a tutto il settecento era vivissima la convinzione che questi abitassero le cime più alte, considerate inaccessibili, ma potessero anche, in questo o quel luogo, infestare passi e valichi. Perfino uno studioso metodico e scrupoloso come il naturalista Johannes Jacob Scheuchzer (Zurigo, 1672-1733), che per primo esplorò le Alpi con l’intenzione di descriverne sistematicamente gli aspetti meteorologici, geologici, mineralogici, botanici e zoologici (scoprì, fra l’altro, una campanula che in suo onore viene chiamata campanula di Scheuchzer) e raccolse i resoconti di nove grandi viaggi di studio nell’opera “Itinera alpina”, riporta, in alcuni capitoli della sua opera, prove dell’esistenza dei draghi. Secondo lui questi animali rappresentano una sorta di variante di dimensioni maggiori dei serpenti, dai quali si differenziano per i seguenti particolari: sono più grandi e dotati, spesso, di barba e baffi, sono rivestiti di una pelle squamosa di colore nero o grigio, emettono un lugubre e tremendo fischio, simile ad un forte sibilo e si nutrono prevalentemente di uccelli che predano, in volo, aspirandoli nelle loro fauci, dall’apertura enorme ed dotate di triplice ordine di denti. Basandosi sulle testimonianze raccolte, giudicate serissime ed attendibili, con il rigore del naturalista classifica 11 diverse specie di drago; fra queste, il drago alato, una sorta di grande serpente che sputa fiamme dalle fauci ed è dotato di ali membranose simili a quelle del pipistrello; il drago dalla lingua bifida, che emette un alito pestilenziale in grado di accecare gli sventurati che vi si imbattono; il drago con corpo di serpente e testa di gatto; i draghi senza ali, di incerta classificazione: forse costituiscono il genere femminile della specie dei draghi. Prima di squadernare il consueto sorriso scettico, dunque, dovremmo andare quantomeno un po’ cauti. Ma se quello che abbiamo davanti a noi è l’occhio del drago, dov’è il drago vero e proprio? Che fine a fatto? Impossibile dirlo.
Forse si trattava di un drago parente stretto del famoso drago di cui parla una leggenda, il drago della vicina Val Piana (già citata come laterale meridionale della Val Grosina Occidentale, in territorio del comune di Grosotto), diciamo un paio di chilometri o poco più in linea d’aria da qui. Forse addirittura si tratta dello stesso drago che, cacciato dalla Val Piana, venne a morire qui. Ma ecco la leggenda. Un tempo l’alpe Piana era ricca di armenti e pastori. La sua condizione florida e felice venne, però, compromessa dall’apparizione, improvvisa e terribile, di un dragone mostruoso, come non se n’era mai visto uno fra le montagne della Valtellina: aveva tre teste, dalle quali sputava fiamme. Venne, non si sa da dove, ed i pastori fuggirono tutti, terrorizzati, lasciando che facesse a pezzi le mandrie. L’alpe divenne, quindi, un luogo deserto, nel quale nessuno osava più avventurarsi. Tennero consiglio, dunque, gli abitanti di Grosio e Grosotto, vincendo la fiera rivalità che li divideva, ma non riuscirono ad accordarsi. Poi, finalmente, si raccolsero, a fatica, le risorse per pagare un esercito da scagliare contro il drago, ma fra la schiera di armati, durante la marcia, non si sa bene come e perché, scoppiarono liti e risse, ed i valorosi guerrieri si dispersero, portandosi via il compenso già intascato. Venne, quindi, anche lui da un luogo ignoto, un giovane biondo, bello, forte e coraggioso, che, conosciuto il flagello dell’alpe Piana, si offrì di sconfiggere il mostro. Anche a lui Grosini e Grosottini versarono oro e gioielli, convinti che quel cavaliere così fiero e nobile d’aspetto avrebbe portato a compimento l’impresa. Invece sparì pure lui, e con lui oro e gioielli. La gente cominciò a sospettare della faccenda: don Lucio propose di non pagare più alcun cialtrone, ma di ingrassare un toro possente, per scagliarlo poi contro il drago. Così fecero, ed il toro, che aveva raggiunto una mole enorme, venne portato all’imbocco della valle, perché sconfiggesse quell’essere mostruoso. Ma, invece di scagliarsi contro di lui, il toro gli si rivolse con queste parole: “Io sono una bestia come te, e mi mandano a morire: non uccidere me, ma prenditela con quelli che si sono arricchiti approfittando della tua presenza”. Non si sa come, né perché, ma la storia finì così: il toro tornò indietro illeso, il drago sparì, così come era venuto, all’improvviso e senza lasciar tracce, e di lui rimase solo il ricordo che venne tramandano dai pastori che ripopolarono l’alpe. Bella leggenda, piena di contenuti istruttivi.
Presi da questi pensieri, portiamoci sul limite settentrionale del pianoro: dopo aver gettato un’ultima occhiata al Sassalbo ed alle sue tormentate quanto candide rocce, che gli conferiscono un aspetto selvaggio e quasi repulsivo, seguendo una traccia di sentiero che descrive un ampio arco verso destra, possiamo scendere a vedere più da vicino il lago. Tagliato un nevaietto e discesa una fascia di sfasciumi, in breve siamo alle sue rive, a 2588 metri di quota: chiuso com’è da ogni lato, il laghetto ha davvero un aspetto arcano e vagamente inquietante. Torniamo, ora, indietro per un tratto, poi prendiamo a destra, passando sopra un saltino di roccia che cade su buona parte della riva e puntando alla bocchettina che si trova ad est del laghetto. L’impressione è che essa si affacci su un salto di roccia invalicabile; invece scopriamo che il salto c’è, ma è tagliato da un largo sentiero che termina proprio qui, di origine chiaramente militare. Il sentiero scende in diagonale verso sinistra: salutato con la dovuta circospezione il laghetto, scendiamo sul fianco roccioso della soglia glaciale. Vediamo, fin dall’inizio della discesa, il terzo dei laghetto di Val Malghera, il “lèch di laghét”, lago dei Laghetti, chiamato così perché se ne sta pigramente adagiato su uno splendido pianoro che, soprattutto dopo abbondanti piogge, è disseminato di pozze ed in buona parte acquitrinoso. Il suo aspetto è decisamente più rassicurante e bucolico. Scendendo, possiamo anche ammirare, davanti a noi, ad est, la bella teoria di cime della Val Grosina e dei gruppi della cima Piazzi, dell’Ortles-Cedevale e dell’Adamello. In particolare spicca, per il suo profilo svelto ed appuntito, la cima Viola. La traccia di sentiero volge a destra ed attraversa una fascia di sfasciumi, prima di terminare al pianoro del lago (m. 2428), luogo ideale per riposare, distendere la mente e cacciare le ombre che ci hanno accompagnato dal passo di Malghera. Poco a destra del laghetto, leggermente più alta, si trova una pozza circondata da un piano erboso letteralmente incantevole: in essa si specchiano, quando il vento riposa, le cime della Val Grosina Orientale, compresa la cima Viola.
Proseguendo nella discesa, torniamo verso il lech di laghét, passiamo a valle della sua sponda orientale e proseguiamo prendendo leggermente a destra, passando appena sotto un baitello, fino a trovare una debole traccia che ci accompagna nella facile discesa che, descrivendo un nuovo arco verso destra, ci riporta all’ampia piana del lago di Malghera. Ora ci troviamo sul lato opposto del lago, rispetto a quello tagliato salendo, quindi siamo di fronte al ricovero Malghera ed al baitello più basso. Pochi metri sotto il ricovero troviamo un cartello, il secondo ed ultimo del sentiero 253, che indica la direzione per tornare a Malghera, data a 45 minuti. Potremmo, infatti, portarci sul lato opposto del lago e ridiscendere per il medesimo sentiero di salita, ma, per chiudere un anello integrale, procediamo nella direzione del cartello, portandoci al baitello poco più in basso: qui scorgiamo una traccia di sentiero, che si fa via via più marcata, che procede, in leggera discesa, tendendo leggermente a sinistra, su un rilassante pendio erboso, fino a raggiungere un rossetto erboso che si affaccia su un salto roccioso. Qui pieghiamo a sinistra, trovando una ben più marcata mulattiera, che inizia un lungo traverso discendente sul versante settentrionale della Val Malghera. Rivediamo il caro profilo del santuario ed alla fine ci ritroviamo proprio al parcheggio dove abbiamo lasciato l’automobile, dopo circa quattro ore dalla partenza (il dislivello approssimativo in salita è di 700 metri). Siamo di nuovo nel regno dell’umano, con le sue rassicurazioni, le sue voci, le sue comodità.

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CARTA DEL PERCORSO sulla base della Swisstopo, che ne detiene il Copyright. Ho aggiunto alla carta alcuni toponimi ed una traccia rossa continua (carrozzabili, piste) o puntinata (mulattiere, sentieri). Apri qui la carta on-line

Mappa del percorso - elaborata su un particolare della carta tavola elaborata da Regione Lombardia e CAI (copyright 2006) e disponibile per il download dal sito di CHARTA ITINERUM - Alpi senza frontiere

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GALLERIA DI IMMAGINI

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ALTRE ESCURSIONI A GROSIO

APPENDICE: Viene qui di seguito riportata la relazione di Paolo Pero, professore di Storia Naturale al Liceo “G. Piazzi” di Sondrio, sul lago di Malghera (nella raccolta “I laghi alpini valtellinesi”, Padova , 1894)


 

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