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La tradizione del Gabinàt è assai diffusa in Valtellina e consiste nel cercare di sorprendere, fra i vespri della vigilia ed i vespri del giorno dell’Epifania, altre persone, gridando “Gabinàt!” prima che queste possano farlo a loro volta. A chi riusciva nell’intento spettava un piccolo omaggio, che la persona sorpresa doveva fargli entro la data di S. Antonio, il 17 di gennaio, offrendo piccoli dolci o pagando da bere. Una tradizione simpatica, che però, stando a quanto racconta Giuseppe Napoleone Besta nei suoi “Bozzetti Valtellinesi” (pubblicati nel 1878 dalla Tipografia Bonazzi di Tirano) fu una volta, in quel di Boalzo, all’origine di una lacrimevole tragedia.
Prima di raccontarla, però, parliamo un po' di Boalzo, che si trova allo sbocco dell’omonima valle, sul versante orientale dell’ampia rocca che, più in alto, ospita Teglio (lo si raggiunge staccandosi dalla ss. 38 dello Stelvio, sulla sinistra, subito dopo Tresenda, per chi proceda in direzione di Tirano). Il paese rivestì, in passato, un'importanza ben maggiore di quanto si potrebbe supporre visitandolo oggi, soprattutto per la posizione che lo poneva al centro di una fascia di pregiati vigneti. Già nel Medio-Evo, dunque, viene citato per i beni che vi possedevano la mensa vescovile di Como e l'Abbazia di Sant'Abbondio (la chiesa di Boalzo, che fu parrocchia già alla fine del XV secolo, è proprio dedicata a questo santo). Il vescovo di Como Feliciano Ninguarda, nella sua visita pastorale del 1589, scrisse, nella sua relazione: "Due miglia da Teglio, contro montagna, in direzione del borgo di Villa, si trova il paese di Boalzo, dove sorge la chiesa parrocchiale di S. Abondio. vi tiene la cura pastorale, per incarico apostolico, il sacerdote frate Alessandro di Grosotto: questo borgo conta oltre sessanta famiglie di cui tre eretiche e le altre cattoliche. Una delle famiglie eretiche si chiama della Nova: ha tra i suoi membri due dottori, uno medico e l'altro giurisperito: la seconda famiglia di eretici è quella di una certa signora cattolica che ha un figlio ribelle alla fede materna ed è eretico con la moglie, mentre la sorella è cattolica come la madre: la terza famiglia di luterani comprende una sola donna, sposata a un uomo cattolico la cui sorella è pure cattolica. Tredici famiglie cattoliche risiedono oltre l'Adda e nove di queste per comodità vanno ai sacramenti a Stazzona; versano però ogni anno le dovute primizie al proprio parroco di Boalzo. Anche le altre quattro famiglie riconoscono però con gli altri la propria parrocchia. C'è stato proprio nel tempo di questa visita il fatto di un apostata dell'Ordine domenicano, certo Forziato Castelletti Callabero, chiamato Modesto, in religione frate Andrea; costui ravvedutosi, venne a Como e, fatta l'abiura dall'eresia, ne fu assolto per autorità apostolica." I sessanta fuochi di cui parla il vescovo corrispondono probabilmente a 300 abitanti. La presenza di tre famiglie di confessione protestante, poi, fu all'origine, nel 1618, di disordini che ebbero conseguenze gravi: la maggioranza cattolica si oppose alla richiesta dei protestanti di poter utilizzare la chiesa di Sant'Abbondio per entrambe le confessioni; ne nacquero disordini che indussero le autorità grigioni ad intervenire duramente. Il nobile tellino Biagio Piatti, accusato di averli fomentati, venne processato dal tristemente famoso Tribunale Speciale di Thusis e condannato a morte. La sua esecuzione suscitò un enorme scalpore, e fu tra le cause che portarono al punto di rottura della rivolta cattolica del luglio 1620 e della conseguente strage dei protestanti. Boalzo non perse di importanza nei secoli seguenti, tanto che per sette anni, dal 1816 al 1823, fu comune autonomo. I suoi abitanti venivano chiamati, sembra per la prima volta da un parroco, "Ròba zùche de Bolsc'", forse in conseguenza di qualche curioso episodio.
Dopo queste note di storia e di colore, andiamo a riassumere la storia raccontata dal Besta. A Boalzo viveva una giovane ragazza, di vent’anni, Eufemia, figlia di un mugnaio, Stefano, e di Monica. La ragazza univa in sé due doti che di rado si accompagnano, la bellezza e la docilità, ed aveva un’amica, Marta, anche lei figlia di un mugnaio, ma di indole assai diversa: tanto quella era semplice, schietta e sincera, altrettanto questa era malevola ed ipocrita. Fingeva, infatti, amicizia nei confronti di Eufemia, mentre in realtà era animata da una forte invidia, anche perché era tutt’altro che bella, e di ciò si tormentava parecchio.
A Teglio, posto a monte di Boalzo, viveva, poi, Giuseppe, giovane trentenne di nobile famiglia, che, un giorno, si trovò ad incontrare Eufemia, innamorandosene immediatamente. Fu, infatti, rapito dalla sua bellezza e semplicità, ed iniziò a corteggiarla assiduamente, ricevendone, all’inizio, una fredda risposta, di cauto riserbo (è da ragazze sfacciate mostrare subito corresponsione di sentimenti, ed oltre a ciò Eufemia voleva essere ben sicura della serietà dei sentimenti e della bontà di carattere del giovane).
L’amore, però, si fece strada, prepotente, nel cuore della giovane, ed i due cominciarono a frequentarsi sempre più spesso. Giuseppe, animato dalle più serie intenzioni, le regalò, come pegno del suo amore, una catena d’oro, con una medaglia che recava, su un lato, l’immagine di San Giuseppe, sull’altro quella di Santa Eufemia. La ragazza promise che non se ne sarebbe mai privata finché fosse rimasta in vita. Era un vero e proprio idillio, di cui si accorse la perfida Marta, che, rosa dall’invidia, cominciò a diffondere voci malevole sui due innamorati e sui loro amoreggiamenti, voci che giunsero fino alle orecchie dei genitori di Eufemia. Questo la ferì profondamente: era combattuta, infatti, fra l’invincibile amore per Giuseppe ed il dolore che le derivava dall’essere sulla bocca di tutti e, soprattutto, dall’aver dato motivo di preoccupazione a persone che le erano altrettanto care, i genitori, appunto.
Fu, alla fine, un tragico evento a porre fine al dilemma. Venne, infatti, la vigilia dell’Epifania, e con essa si scatenò la caccia alle vittime del “Gabinàt”. Eufemia, però, era intenta a cose più serie, dovendo attendere alle incombenze domestiche. Aveva, infatti, acceso il fuoco sotto una grande caldaia, portando ad ebollizione l’acqua che, dopo l’aggiunta di cenere e carbone, sarebbe servita per il bucato. Mentre era immersa nel proprio lavoro e nei propri pensieri, senza che se ne accorgesse entrò, nel locale dove si trovava la caldaia, Marta. La finta amica, non paga delle voci cattive che aveva diffuso ad arte, ardeva ancora d’invidia per Eufemia e per la sua storia d’amore, lei che non riusciva a trovare nessuno che la volesse come fidanzata. Con tutto il gusto cattivo di cui è capace chi vuol fare il male scivolò, allora, furtiva alle spalle della ragazza, gridando poi, all’improvviso, “Gabinàt!”.
Eufemia ebbe un moto di spavento, alzò le braccia ed aprì le palme delle mani come per un’istintiva difesa, e ciò le fu fatale: il mestolo che teneva in una mano le cadde proprio nella caldaia, provocando un grande spruzzo di lisciva bollente, che la colpì in pieno volto. Rimase orribilmente ustionata, alla fronte, all’occhio sinistro, al naso ed al labbro superiore. Le conseguenze delle ustioni furono terribili: perse la pelle della fronte, la pupilla dell’occhio, che rimase bianco, ed il labbro che, staccatosi, lasciò scoperti i denti, offrendo uno spettacolo penoso. Fu un colpo terribile: non poteva accettare quel nuovo ed impressionante aspetto, si mise a letto, coprendosi il capo per non essere vista, e non volle più vedere nessuno.
La notizia dell’incidente si diffuse, e raggiunse Giuseppe, che fu preso dalla più viva inquietudine, perché nulla sapeva delle sue conseguenze e delle condizioni dell’amata. Lasciò, tuttavia, passare un po’ di tempo, prima di decidersi a scendere a Balzo, per verificare di persona come stesse Eufemia. Insistette presso la famiglia per vederla, ed alla fine fu ammesso alla camera nella quale l’infelice si era segregata. Non si rese conto subito delle condizioni della sventurata, ma, quando questa si tolse il velo che la copriva, rimase senza respiro, sconvolto per lo spettacolo insieme ripugnante e pietoso che aveva di fronte agli occhi. La ragazza era altrettanto sconvolta, e lo pregò di andarsene, di non pensare più a lei, di considerarla morta. Fu un colpo terribile per Giuseppe, che cadde in una brutta malattia, una meningite, dalla quale guarì, uscendone, però, invecchiato di vent’anni.
Ben più triste fu la sorte della ragazza, che, impazzita, fuggì di casa e si diede a vagabondare per i boschi. E così per tutti gli anni rimanenti che ebbe in sorte di vivere: girava, inoffensiva, per le selve, comparendo, di quando in quando, a qualche contadino. Quando incontrava qualcuno, gridava, con tutto il fiato di cui era capace, “Gabinàt!”, sghignazzando, poi, in modo folle. Per questo i contadini finirono per chiamarla la “Gabinàta”: la credevano una strega, un’anima condannata a vagare senza pace, ed il suo aspetto, negli anni, divenne sempre più quello di orribile megera. Venne anche per lei, infine, il giorno della pace: fu trovata, assiderata, un gelido mattino d’inverno, sul sentiero di un bosco, e venne consegnata al becchino perché provvedesse alla sepoltura nel cimitero di Boalzo.
Questi si accorse che la vecchia cenciosa aveva addosso una catena d’oro, un oggetto di gran valore, con l’immagine dei santi Giuseppe ed Eufemia: ne fu assai sorpreso e non esitò ad appropriarsene. La sventurata Eufemia aveva tenuto fede, anche nella sua lunga follia, alla promessa fatta all’amato, e solo la morte la separò dal segno del suo infelice amore.
Il becchino pensò di approfittare dell’insperato guadagno per farne dono alla moglie. Questa, non appena vide la catena, trasalì, riconoscendola: ricordava ancora bene, infatti, il giorno ormai lontano nel quale l’amica glie l’aveva mostrata, orgogliosa. Si trattava di Marta, che non aveva avuto sorte molto migliore dell’amica cui aveva rovinato l’esistenza: non avendo trovato nessuno che la prendesse come sposa, si era rassegnata alla triste condizione di moglie del becchino.
Così si conclude questa storia, degna del miglior melodramma e conosciuta anche come la storia della bella mugnaia di Boalzo.

Per stemperare la tonalità tragica di questa triste storia, proponiamo, infine, un divertente episodio raccontato da Glicerio Longa in “Usi e costumi del Bormiese” (1912, riedito da Alpinia Editrice nel 1998), sempre centrato sulla tradizione del “gabinàt”:
“È ancor vivo il ricordo di due buoni preti, dei quali uno mingherlino e quasi nano (al Sc’kenìn), l'altro corpulento ed aitante (don Doménik). Tutt'e due d'arguto e giocondo umore, vicini di casa ed amicissimi.
In una di tali feste il grosso prete se n'andava alla parrocchiale per dir la messa cantata; ma ogni tanto si voltava indietro guardingo, per tema di qualche sorpresa. Nulla. Solo da lontano, sulla strada bianca di neve, un uomo con una gerla s'avanza dritto e rapidamente, come se essa fosse vuota. Si era ormai alla piazza, fra la turba degli accorrenti alla chiesa. Ad un tratto dalla gerla emerge il capo grigio dello Sc’kenìn, che suona un pugno sulla groppa dell'amico, gridandogli, sghignazzando: «Gabinàt!».
"Te me l'èsc féjta sc’tòlta, ma te me la pagarèsc! Tu me l'hai fatta questa volta, ma tu me la pagherai!" risponde don Doménik – che era livignasco – voltandosi come sbalordito.
Poi, tra le risa approvatrici della folla, se ne vanno a braccetto in sagrestia.
Si racconta che l'anno appresso, al Sc’kenín venisse d'urgenza chiamato al letto d'una puerpera, di cui aveva battezzato il rampollo nella giornata.
Non è a dire come rimanesse, quando, entrato nella camera, sentì risuonare un allegro ghibinèt e riconobbe nella puerpera... l'amico don Doméník…
L'usanza di vincere il gabinàt è comune in tutto il Bormiese. A Cepina e in Valfurva dicono gabinèt, a Semogo ghebinèt, a Livigno ghibinèt. Qualche volta il prevenuto, sorpreso dal grido «Bondì, ghibinèt!», risponde scherzosamente: «Tiri la ció al ghèt! Tira la coda al gatto!».
Nota: Così la parola gabinàt, che vuol dire dono della Befana, come l'usanza sono di origine germanica (Baviera). Ma a noi l'usanza stessa pervenne certo dal Tirolo (Alto Adige), col quale pure l'abbiamo in comune. A Poschiavo, gabinàt regalo di capodanno, capodanno; trentino beghenate, benagate, i doni della befana, dal tirolese-bavarese gébnacht che significa natale, capodanno, epifania. Nel trentino, anche: canzoni cantate davanti alle case da ragazzi poveri da natale sino alla befana, e i doni che per ciò ricevono.


Piana di Livigno

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