Processione dei morti e lotta fra amore ed odio in un borgo antico
“Volgiamo
ora lo sguardo ai comuni che stanno al di là dell’Adda,
sul versante di mezzodì, appartenenti anch’essi al terziere
di mezzo. Il primo villaggio che si incontra, dopo le frazioni appartenenti
a Ponte e Chiuro, è Boffetto, che sta proprio sulla riva dell’Adda
ed ha un ponte sopra questa”. Così scrive, all’inizio
del Seicento, Giovanni Guler von Weineck, nel resoconto del suo viaggio
in Valtellina. Boffetto (m. 327), infatti, è una frazione di
Piateda, che si trova ad est di tale centro, in una caratteristica posizione,
quasi addossata al versante orobico e tagliata in due dal corso dell’Adda.
Il fiume, in questo tratto della media Valtellina ad oriente di Sondrio,
corre a ridosso di tale versante, perché quello retico è
occupato dall’ampio conoide della Fiorenza, che ospita Chiuro
e Ponte.
Si tratta di un borgo che conserva ancora qualche tratto medievale,
con le abitazioni che si stringono a mutua protezione e con il suggestivo
ed antico ponte in pietra che congiunge le due sponde dell’Adda.
In passato godette di notevole importanza, sia per la presenza del ponte,
importante nodo nel sistema di comunicazioni della media Valtellina,
sia per le attività artigianali legate alla lavorazione del ferro,
da cui, forse, trae origine il nome (il
termine dialettale “bufèt”, infatti, significa soffietto,
attrezzo che permetteva di soffiare sul fuoco per tenerlo vivo; il ferro,
poi, veniva estratto soprattutto nella vicina valle d’Ambria,
ed è sempre il Guler von Weineck ad attestarci che “in
questa valle furono un giorno in esercizio miniere di ferro; ma da alcuni
anni vennero lasciate in abbandono”).
A riprova di ciò si può ricordare che nel secolo XVI il
paese era governato sulla base di uno statuto autonomo, prerogativa,
fin dal Medio Evo, delle località di maggior rilievo. Anche la
presenza di due chiese, a distanza relativamente ridotta, testimonia
la vitalità di questo borgo.
La più grande è la cinquecentesca chiesa parrocchiale
di S. Caterina, a nord della quale si trova il cimitero: la si incontra
percorrendo la strada che congiunge Piateda a Boffetto, dopo aver superato
il ponte della Streppòna. La strada principale, infatti, vi giunge
proprio davanti, per poi svoltare a sinistra, lasciare alla propria
destra il cimitero e risalire verso nord confluendo, superato un passaggio
a livello, nella ss. 38 dello Stelvio, all’altezza dello svincolo
per Poggiridenti piano.
Se,
invece, raggiunta la chiesa svoltiamo a destra, passiamo davanti all’oratorio
di S. Marta, attiguo ad essa, e ci dirigiamo verso la parte vecchia
del paese, fino all’antico ponte sull’Adda. Portandoci sulla sponda opposta e proseguendo verso est (sinistra), raggiungiamo, infine,
la chiesetta medievale di S. Pietro martire, poco distante dal punto
in cui termina termina l’abitato di Boffetto ed inizia quello
di Caròlo.
Un quadro sintetico della situazione del paese a metà del settecento ci viene offerto dallo storico Francesco Saverio Quadrio, che, nell’opera “Dissertazioni critico-storiche intorno alla Rezia di qua dalle Alpi oggi detta Valtellina” (Edizione anastatica, Bologna, Forni, 1971), scrive: “Buffeto (Buffetum). Questo Luogo è però parte di qua, e parte di là dell'Adda, che lo divide per mezzo. Le Contrade, che vi sono aggregate, sono Pajosa, così appellata dal Fiume, che ne trascorre, la Valbuona, e una parte della Valle d'Agneda. Anticamente erano questi Luoghi compresi sotto il nome di Trisivio Piano: e in Bufieto v'era pure Castello, che s'aspettava alla Famiglia Quadrio, e in Valbuona un altro pur era, che spettava alla Famiglia Ambria: e in questi Contorni fioriva altresì la Famiglia Pietrasanta.”
Ci sono due leggende, assai note, legate a questo paese. La prima è
legata al culto dei morti, particolarmente vivo, qui. Si sa che la notte
fra il 31 ottobre ed il primo novembre, festa di Tutti i Santi, sospende,
secondo quanto vuole una credenza popolare assai diffusa in buona parte
dei paesi cristiani (ed universalmente legata, oggi, agli aspetti di
commercializzazione della notte di Halloween), la rigorosa separazione
fra mondo dei morti e mondo dei vivi.
A Boffetto si racconta che siano i morti a far visita ai vivi, prima
ancora che questi, il successivo 2 novembre, ricambino la visita recandosi
al cimitero. Alla mezzanotte esatta del primo novembre i morti, infatti,
escono dal cimitero del paese, in una processione al lume di candela
e si recano nella vicina chiesa a pregare. Poi la processione si scioglie
perché ciascuno, nel cuore della notte, fa visita alle case dei
cari che ancora sono in vita. La
tradizione vuole che non ci si attardi per cercare di sbirciare l’arcano
evento, ma che si lascino delle castagne sul tavolo, come segno di accoglienza
e di un affetto che il tempo non affievolisce. I morti, a loro volta,
manifestano l’affetto ancor vivo consumando quel pasto frugale.
Il tutto nel più fitto mistero.
Ma c’è sempre qualcuno che non si sa rassegnare al si dice,
e, come il san Tommaso di evangelica memoria, ci vuole mettere il dito,
o, perlomeno, vuole vedere con i propri occhi quello che realmente accade.
Questo qualcuno, in quel di Boffetto, era un contadino, cui non difettava
la curiosità, a dispetto dell’adagio che la vuole donna.
Questi decise, dunque, di vincere la naturale ritrosia e la comprensibile
paura, per poter essere spettatore di quel grandioso evento: non vedeva
l’ora, infatti, di potersene vantare, raccontandolo a tutti, in
paese. Si appostò, quindi, in chiesa, facendosi chiudere dentro,
non visto, ed attese, per lunghe ore, mentre la notte, nel freddo pungente
del primo autunno, avanzava a larghi passi.
Giunse, infine, la sospirata ma anche temuta mezzanotte, e giunse anche
l’arcana processione: avanzavano lente, le anime dei defunti,
cantando salmi con voce ferma e composta, come si addice a chi non ha
più alcun motivo per affrettarsi, ed un tempo illimitato per
cantare le lodi del Signore. I
defunti non mostravano l’aspetto: solo la fioca luce delle candele
ne segnalava la presenza, il resto rimaneva avvolto in una penombra
che non si poteva squarciare. Entrarono in chiesa, presero posto fra
i banchi, celebrarono la liturgia in onore di Tutti i Santi, le più
illustri luci nella luminosa ed eterna liturgia celeste.
Lo spettacolo era davvero tale da rapire, più che spaventare.
Il contadino, però, conservò la presenza di spirito per
notare la stranezza della sua situazione, legata non tanto al fatto
che era ancora vivo (quello, pensò, poteva passare anche inosservato),
quanto, piuttosto, al fatto che era sprovvisto di una candela. Il dettaglio
non passò inosservato: un defunto gli si avvicinò e diede
anche a lui una candela. A questo punto il giovane poté, con
tutta la tranquillità compatibile con la situazione davvero singolare,
assistere al prosieguo dei riti, fino a quando, terminata la celebrazione,
le anime uscirono, sempre calme e composte, dalla chiesa e si dispersero
fra le strette vie del paese, ciascuna cercando la via di antichi affetti.
Fu allora che l’attenzione del contadino, non più concentrata
su quello che accadeva intorno a lui, poté soffermarsi su ciò
che aveva in mano: osservando bene, si accorse però, con raccapriccio,
di stringere non una candela, bensì le ossa del dito di uno scheletro.
Ci aveva voluto mettere il dito, ed ora il dito se lo ritrovata proprio
in mano, e che dito!
Leggiamo questa storia nella bella ricerca ciclostilata curata nel 1976 dagli alunni della Scuola Elementare di Piateda.
Ma i misteri di Boffetto non terminano qui. L’antico ponte sull’Adda,
menzionato anche dal Guler von Weineck, è legato ad una leggenda
che ha come tema l’eterna lotta fra odio ed amore. Ne
sono protagonisti i giovani Bonazza e Paleari, personificazione delle
due vie che si guardano dalle opposte rive dell’Adda, in corrispondenza
del ponte. Un tempo il ponte non c’era, ed i due giovani, che
erano animati da amore reciproco, non potevano manifestarlo che con
l’ardore degli sguardi: il fiume, superbo e sprezzante, li divideva.
Ma un giorno la forza dell’amore compì una sorta di prodigio:
un albero, non si sa come, cadde, dalla vicina selva, e rimase sospeso
fra le due rive, formando un ponte che scavalcava le fredde acque dell’Adda.
I due giovani, finalmente, si incontrarono, proprio su quel ponte precario,
e poterono esprimersi tutta l’intensità del loro sentimento.
Ma quel ponte parve al superbo fiume un affronto insopportabile e, siccome
a nulla valeva la violenza delle sue acque (era troppo alto perché
potesse essere trascinato via), l’Adda ordì oscure trame
di odio e contrapposizione. Sulle opposte rive sorsero torri e fortificazioni,
munite di armati, sinistro simbolo di violenta contrapposizione. L’odio
parve, gelido, spegnere il calore dell’amore, e corse del sangue,
versato nella lotta di opposte fazioni. Il fiume lo accolse, crudele,
come tributo per l’orgoglio violato.
Tuttavia
non l’ebbe vinta. L’amore, infatti, tornò a farsi
largo nei cuori, venne il momento della pacificazione e della concordia,
e le due rive, da nemiche che erano, tornarono amiche, onorando la memoria
degli antichi amanti. Quel che accadrà in futuro, dice la leggenda,
è sospeso, come il ponte della concordia e della discordia: si
rinnoverà il ciclico alternarsi di amore ed odio, segno, insieme,
della grandezza e della miseria dell’uomo, fino alla vittoria
conclusiva del bene, con il ritorno glorioso di Cristo alla fine dei
tempi.
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