La promessa tradita di amore eterno
Ogni
promessa è debito: così recita un famoso proverbio. E
se così è in ogni cosa, lo è sommamente nelle faccende
d’amore. Una parola data impegna per sempre, quando c’è
di mezzo il cuore. Ma non sempre gli uomini si ricordano di questo,
ed allora la promessa tradita diventa ferita che non si può rimarginare,
offesa ai sentimenti di chi ha affidato il proprio cuore nelle mani
di un promesso sposo.
È, questo, il tema di una delle più note leggende di Valmalenco,
che ha come cornice il tranquillo scenario di Spriana, adagiata sul
tranquillo crinale che se ne sta, quasi sospeso, fra le più alte,
selvagge e dirupate balze del versante occidentale del monte Foppa e
le paurose forre che, nella parte più bassa di tale versante,
precipitano sul fondo oscuro scavato per millenni dalla rabbia del torrente
Mallero (salendo in Valmalenco, si trova, sulla destra, lo svincolo
per Spriana ad 8,3 km da Sondrio: attraversato il ponte sul Mallero -màler-,
si raggiunge il paesino, oggi tristemente noto per il grande movimento
franoso che ne interessa il territorio, dopo aver percorso circa 1,6
km).
Protagonisti della leggenda sono l’infelice Belina e l’infedele
Gianni. Costui
era un giovane che, incontrata una ragazza del paesino di Spriana, piccolo
borgo sul fianco orientale della bassa Valmalenco, se ne innamorò,
dichiarandole il proprio amore e giurando che questo sarebbe stato eterno.
Belina, così si chiamava la ragazza, ricambiò subito l’amore
e la promessa. Fu, questa, la primavera felice dell'idillio che sembrava
non dover mai avere fine.
Ai giorni felici seguirono quelli dell’apprensione: Gianni, cavaliere
valente, doveva partire per una campagna militare in terre lontane.
Gli ultimi giorni di felicità, per Belina, furono segnati da
un moltiplicarsi delle promesse: al ritorno l’amore sarebbe stato
coronato, il matrimonio avrebbe unito per sempre i due innamorati, che
facevano a gara nell’assicurarsi reciprocamente che l’attesa
non sarebbe stata lunga, che i giorni della felicità sarebbero
alla fine venuti, e che nulla avrebbe potuto mai più turbare
questa felicità.
Gianni partì, seguendo il suo esercito, che si accampò
in terre straniere, impegnato in una campagna che fu più lunga
del previsto. Lontano dagli occhi, lontano dal cuore: ecco un nuovo
proverbio che potrebbe esprimere nel migliore dei modi quel che accadde
a Gianni. Forse il suo amore non era così profondo come aveva
creduto ed aveva promesso, forse la solitudine delle lunghe veglie nella
desolazione dell’accampamento gli riuscì insopportabile. Fatto
sta che conobbe un’altra ragazza, se ne invaghì e la sposò,
proprio mentre Belina, ignara, vinceva la tristezza della separazione
con il pensiero consolante del giorno del suo ritorno. Un giorno che
non venne mai.
Venne, invece, la notizia, che ferì mortalmente la giovane: il
suo promesso sposo era già sposo, di un’altra donna. Una
notizia dalla quale Belina non si riebbe. Troppo profonda era la ferita
di quell’amore tradito. Solo la morte avrebbe potuto porre fine
al suo straziante dolore, e fu una morte tragica quella che la sventurata
cercò, gettandosi in una forra del Mallero (màler), presso il Ponte Nuovo,
sotto la contrada di Scilironi, là dove il torrente si è
scavato una marmitta dei giganti, la più grande: fu lì
che il suo corpo, esanime, venne trovato. Era l’autunno, un autunno
freddo e nebbioso.
Ma la tragica vicenda non finì qui. Prima di morire, la giovane
invocò, infatti, l’intervento della giustizia divina: non
era possibile che il giovane traditore rimanesse impunito. Cosa accadde,
allora, la leggenda con precisione non lo dice. Ci racconta, però,
che Gianni pagò a caro prezzo il tradimento, perché, dopo
la morte, fu condannato a vagare senza pace, anima inquieta e tormentata,
ed a rivivere la terribile angoscia di Belina.
Ne sono testimoni alcune fra le numerose coppie di innamorati che, nelle
sere d’autunno, nei mesi di ottobre e novembre,
scelgono di sostare, per scambiarsi effusioni e promesse, sul piazzale
della chiesetta della Madonna della Speranza, eretta su un enorme e
scuro masso erratico, presso il centro di Spriana. Quella stessa Madonna
che Belina aveva tanto pregato, animata com’era dalla speranza
di poter coronare il suo sogno d’amore. Agli innamorati che, come
lei, interrogano il proprio futuro può accadere di assistere
ad uno spettacolo insieme pauroso ed affascinante: un cavaliere, in
sella ad un nero cavallo, balza fuori dalla forra del Mallero; il cavallo,
lanciato in un furioso galoppo, sale fino alla chiesetta, gira intorno
al grande masso che la regge, per poi precipitarsi di nuovo nel cuore
nero del torrente Mallero, trascinando con sé lo sventurato cavaliere.
Questi è Gianni, condannato a rivivere l’angoscia della
giovane tradita, quell’angoscia che la prese quando si vide quasi
inghiottita da quelle rocce nere e paurose.
Ma alle più sincere fra queste coppie di innamorati può
capitare di vedere anche il fantasma della Belina, che se ne sta, triste
e sconsolato, ad assistere al ripetersi di quella folle galoppata. Quanto
durerà lo strazio dell’infelicità che si ripete
per i due giovani, traditore e tradita? La leggenda racconta che un
giorno esso finirà, ed anche la paurosa marmitta dei giganti
si trasformerà in un gentile giglio azzurro, simbolo di pace
e serenità. Allora il debito sarà saldato: perché
ogni promessa è debito, ma nessun debito è eterno.
La leggenda è riportata nei volumi “Domina il Bernina – Conti di Rezia”, di Giuseppe Fornonzini (Sondrio, 1930) e "Valmalenco", di Ezio Pavesi (Cappelli Editore, Sondrio, 1969, pg. 181).
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