Nel bestiario immaginario con cui la fantasia popolare ha animato boschi, selve e foreste il basilisco ha sicuramente un posto di rilievo, fin dal Medio Evo. Il termine deriva dal greco “basileus”, che significa re, e non si riferisce al rettile dei sauri diffuso nell’America tropicale (e chiamato con lo stesso nome per via della cresta che, a mo’ di corona, porta sul capo e sul dorso): si tratta, invece, di un animale fantastico, strettamente imparentato, come la salamandra, ai draghi, di cui ripropone alcune caratteristiche tipiche.
Nell’antichità lo scrittore latino Plinio il Vecchio presenta il basilisco come serpente con una macchia a forma di corona sulla testa; si legge, in un Dizionario delle Scienze Naturali del 1832:
"Nessuno animale è stato forse al pari di questo, argomento di tanti pregiudizi! I più antichi autori hanno parlato sotto questo nome di un serpente, che poteva dar la morte con un solo de' suoi sguardi; altri hanno preteso che non potesse esercitare questa facoltà quando non era il primo a vedere.
Si è creduto che il gallo nella sua vecchiezza deponesse un uovo, dal quale venisse alla luce il basilisco, lo che come ognun vede è affatto contrario al sistema della natura, la quale accorderebbe al sesso maschile uria facoltà che è esclusivamente propria del sesso femminino. L'Aldovrando e molti autori ne hanno dati delle ligure. Veniva rappresentato con otto piedi, con una corona sulla testa, e armato di un becco adunco e ricurvo... Plinio asserisce che il serpente chiamato basilisco ha la voce sì terribile da far paura a tutla l'altre specie, e che in tal modo le scaccia dal luogo che abita onde regnarvi da sovrano.
Le bizzarre forme e le proprietà favolose che si erano attribuite a un animale, il quale probabilmente non è mai esistito, avevan reso il suo nome tanto celebre da cercare d'applicarlo ad un'altra specie, lo che infatti è avvenuto.

Seba ha rappresentata una specie di lucertola con la testa sormontala da linee rilevate e col dorso armato di una larga cresta verticale, che si stende fin sulla coda, e che quest'autore credeva destinata al volo; e l'ha additata sotto il nome di basilisco o drago d'America, anfibio volante. Questo è l'animale che in seguito è stato descritto iu tutte le opere sotto il nome di basilisco."
Nel Medio Evo l’animale fantastico assume una forma più complessa: l’inglese Chaucer attribuisce al nome il significato di gallo-re (basilicock), e da allora venne rappresentato come tipo particolare di drago, con elementi del corpo di un gallo, o come gallo quadrupede con una lunga coda da serpente. Se ne immaginarono due diverse versioni, quella alata e volante e quella solamente terrestre. In ogni caso il basilisco aveva caratteristiche malefiche peculiari, legate al veleno della sua lingua (con il quale poteva uccidere, ma più spesso avvelenava le fonti cui si abbeverava o faceva marcire frutti e pascoli), ai poteri terrificanti del suo sguardo (capace di stordire o impietrire le persone, ma anche di frantumare pietre) ed quelli altrettanto temibili del suo fischio (capace di stordire o uccidere).
È interessante osservare che nei secoli passati venne elaborata una vera e propria spiegazione (che ai nostri occhi appare, ovviamente, pseudoscientifica) del malefico potere del basilisco di uccidere con il solo sguardo. Ne fa menzione anche Vittorio Spinetti, nel suo volume “Le streghe in Valtellina” (Sondrio, 1903), riportando affermazioni desunte dal “De strigiis” di frate Bernardo Rategno (il quale, a sua volta, chiama in causa l’autorità di San Tommaso d’Aquino): “E il frate inquisitore spiega la malia fatta ai fanciulli appoggiandosi all'autorità del Beato Tomaso dicendo che quella « è un'infezione che procede dagli occhi infetti por la malizia dell'anima, coli' aiuto del demonio e col permesso di Dio, e che ciò avviene specialmente nelle vecchie, nelle quali per una certa malizia contratta coll'amicizia e col patto dei demoni si forma un rivolgimento nocivo e velenoso attraverso le vene sino agli occhi di quelle, e dagli occhi alla cosa guardata attra­verso uno spazio determinato, e così lo sguardo di esse velenoso e nocivo corrompe e guasta fanciulli che hanno corpo tenero e facilmente impressionabile e in tal modo infermano e vomitano il cibo.
E perché avviene perché la donna (actualiter menstruata), se guarda in uno specchio puro e terso, subito lo guasta e lo deturpa, e il basilisco quando vede l'uomo lo uccide.”
Questo famigerato mostro venne ben presto accolto nell’arco alpino (fino al secolo XVIII si sconsigliava di valicare alcuni passi alpini perché particolarmente infestati da draghi; famoso, fra questi, il drago della val Bregaglia, che infestava il passo del Maloja). Giunse, quindi, anche in terra di Valtellina e Valchiavenna, dove diverse sono le sue denominazioni dialettali (“basalèsk”, “baselèsk”, “basalìsk”), oltre che le rappresentazioni: spesso, infatti, viene presentato come animale di dimensioni più ridotte rispetto a quelle canoniche dei draghi (qualcosa di simile ad un geko, o anche ad un grosso rospo), ma non per questo meno temibile, anzi, più insidioso perché capace di mimetizzarsi e nascondersi negli anfratti ombrosi dei boschi. La sua azione malefica si esercita solo raramente sugli uomini: più spesso, infatti, inquina fonti d'acqua o avvelena frutti e raccolti.

Per saperne di più, cediamo la parola ad uno dei massimi conoscitori dell'universio immaginario alpino, Aurelio Garobbio, che, nella raccolta “Leggende delle Alpi Lepontine e dei Grigioni” (Rocca San Casciano, Cappelli, 1969, pg. 51), scrive:
"È poco piú grosso di un ramarro, e gli somiglia anche, benché la sua pelle non sia verde bensì grigio-scuro e coperta di squame. Sulla testa ha una cornea corona, lungo il filo della schiena e sulla coda una durissima cresta a sega. Ai lati gli spuntano due ali membranose che apre volando al pari di un pipistrello. Cacciando fuori la bifida lingua fischia e richiama l'attenzione degli uomini e degli animali.
Chi guarda i suoi occhietti verdi resta incantato e rimane come di sasso. Non un piede può muovere, né una mano, né abbassare le palpebre per sottrarsi al maleficio, né urlare per chiamare soccorso. Il veleno del gallo basilisco ha effetto immediato e non c'è scampo; la dannata bestia aspetta però a morsicare la vittima che non può fuggire, fermandosi a fissarla per intere ore, godendo del disperato terrore ed accorciando il supplizio soltanto se ode avvicinarsi qualcuno.
Interi boschi e fiorenti cascinali a volte si incendiano e in un batter d'occhio sono preda delle fiamme. È il gallo basilisco che volando sinistramente ha lasciato cadere una goccia del veleno.
Si dice che l'orrida bestia nasca dall'uovo di un gallo di sette anni, covato dal gallo per tre settimane.
Il girasole ha il potere di tenerlo lontano, come lontani tiene gli altri rettili; per questo sull'angolo degli orti e dei campi vedete il giallo fiore eretto sull'alto fusto, quasi in vedetta
."

La sua presenza viene segnalata in diversi luoghi. Eccone alcuni.
In Val Gerola pare che il basilisco minacci uomini ed animali con il suo fischio terribile, capace di tramortire ed uccidere la terza volta che lo si sente (per questo non bisogna indugiare: non appena lo si ode, è necessario fuggire tappandosi ben bene le orecchie).
A
Castione sembra, invece, che quest’animale sia una versione, o mutazione malefica del rospo, tanto che viene chiamato “sciatt basalisk”: il suo corpo, infatti, è simile a quello di un grande rospo, con una lunga coda, o, secondo altri, è il corpo di un serpente con una testa di rospo. Un tempo molte persone raccontavano di aver udito il suo verso raccapricciante, poche, invece, potevano dire di averlo visto; in ogni caso, manco a dirlo, si assicurava ai bambini che, avventurandosi da soli nel bosco, sarebbero stati facile preda del mostro.
Torniamo, infine, sul versante orobico: raccontano che il sentiero fra Alfaedo (sopra Selvetta) ed il maggengo della Motta, sul fianco orientale della val Fabiòlo (sentiero, peraltro, assai interessante, che permette di entrare nella valle sfruttando una bocchetta tagliata sul selvaggio fianco montuoso che scende dalla cima della Zocca) fosse presidiato da un “basalesk", drago con le ali di pipistrello e la testa di gallo, che spesso si appostava nello stretto ed ombroso corridoio della bocchetta.
Altro sentiero della val Fabiòlo infestato dai "basalésk" (o "basalìsk") era quello della "rusanìda",assai stretto e pericoloso, fra roccioni e strapiombi impressionanti sul versante orientale della valle, fra la Motta ("mùta") e la parte alta della valle sopra la Sponda. I viandanti che si avventuravano su quel sentiero non di rado si imbattevano nel mostro dagli occhi di fuoco, che veniva su dall'orrido canalone intagliato nella roccia sotto la cima della Zocca, o che si materializzava, d'improvviso, su una roccia a monte del sentiero, proprio nei punti più delicati, dove non si poteva correr via, ma occorreva procedere con cautela, passo dopo passo.
Ecco perché qualcuno s'era perso su quel sentiero, era scomparso, non se n'era saputo più nulla: sicuramente c'era di mezzo l'infernale basilisco. Poi, però accadde un miracolo. Accadde quando il cardinal Andrea Ferrari, allora vescovo di Como (1892-94), prima di diventare arcivescovo di Milano, venne in visita pastorale in Valtellina e passò proprio per quell'impervio sentiero. Veniva da Faedo e passò per il passo della Motta, la bocchetta che, come sopra abbiamo visto, era infestata da un grande basilisco. Doveva salire a Campo e, per risparmiare tempo, non scese al fondovalle, dove sale la comoda mulattiera dalla Sirta, ma rimase a mezza costa, sfruttando appunto il sentiero della rusanìda. Era un uomo di grande tempra, oltre che di grande santità, non aveva paura di fatica e dirupi.
Quando giunse al punto più critico, dove il sentiero è intagliato nella viva roccia e corre su un impressionante strapiombo, gli uomini che gli facevano da guida si offrirono di sorreggerlo e di dargli la mano per sicurezza. Egli, però, non volle farsi aiutare, e rivelò di essere stato, da ragazzo, umile capraio: ne aveva visti di passaggi sospesi sul vuoto, ormai non lo impressionavano più.
Giunse, quindi, a Campo, il 6 agosto 1893, e si fermò fino al giorno successivo, consacrando la chiesa e l'altar maggiore. In paese non si parlava d'altro: tutta la gente esprimeva la sua ammirazione per quel cardinale così santo, così coraggioso e così alla mano. Dicevano: "Pensée mò che l'è pasà da Rusanìda!" Da allora, quando qualcuno si lamentava di dover badare alle capre, veniva quasi sempre apostrofato con frasi di questo tenore: "Vàrda che dàa 'l cardinal Feràri l'ha fàc ul cauréer", cioè "Guarda che anche il cardinal Ferrari ha fatto il capraio!". Si diceva anche: "Crèet mìa da sbasàt a percürò 'l càure, che dàaa 'l cardinàl Feràri, quànt l'èra 'n tùus, l'andàva cul càure", cioè: "Non credere di fare un lavoro umile curando le capre, perché anche il cardinal Ferrari, quando era ragazzo, andava con le capre" (cfr. il Vocabolario dei dialetti della Val Tartano di Giovanni Bianchini).


Val Fabiolo

Ma, direte, cosa c'entra tutto questo con il basilisco? C'entra, eccome, perché dopo il passaggio del Cardinale, il basilisco scomparve. Nessuno lo vide più, né alla Rusanìda, nè al passo della Mùta. Nessuno ne sentì più parlare. Il sentiero rimase con tutti i suoi pericoli, ma almeno fu liberato da quell'essere malefico.
Il basalèsk della Rusanida amava, di tanto in tanto, spiccare il volo e visitare anche l'opposto versante retico: così, da Talamona più d'uno lo vide traversare dall'uno all'altro dei bastioni che sono un po' le colonne d'Ercole fra bassa e media Valtellina, il Crap del Mezzodì, sul lato orobico, ed il Culmine di Dazio, su quello retico. I testimoni lo hanno descritto abbastanza concordemente come serpente di color verde, giallo e nero, con una corona che ne traversava il dorso dal capo alla coda.
Parente stretto di questo basalèsk era quello che viveva nei monti sopra Talamona, nelle valli dul Birr e dell'Uàt, nei pressi del Faìi (Faedo) di Talamona.
Ce ne parla Daniela Larraburu, nel volume "Talamonesi nel mondo : trenta giorni di nave a vapore", edito dal Comune di Talamona (Sondrio, Polaris, 2008). Questo, però, aveva una particolarità: esercitava il suo potere mortale sugli uomini in virtù di un sasso che teneva sempre in bocca. Sempre, ad eccezione di quando beveva alle acque del solito ruscello. Una sera Ciaponi Giacomo, contadino che portava spesso le sue mucche ad abbeverarsi al torrente della valle dul Birr, mentre le bestie si abbeveravano alle sue acque vide, più in basso, l'orrenda bestia. Purtroppo nello stesso istante anche la bestia lo fissò. Fu preso da vivo terrore, perché aveva ascoltato più e più volte, fin da piccolo, che se il basilisco incrocia lo sguardo con quello di un essere umano, per costui è la fine. Fortuna volle che anche la bestia fosse presso il torrente per abbeverarsi, per cui aveva già deposto il sasso fonte del suo malefico potere. Il Giacomo ebbe così salva, per l'immediato, la vita, altrimenti sarebbe caduto, come ad altri era capitato, in un torpore innaturale, che l'avrebbe condotto alla morte, preceduta dal vomito di una sorta di bava biancastra. Ma fu segnato dalla terribile esperienza, come lo furono, per qualche tempo, le sue bestie. Queste, infatti, per un bel po' ebbero il latte guastato: usciva dalle loro mammelle rancido e maleodorante. A lui, invece, si guastò il sangue e, poco a poco, si manifestarono i sintomi di un malessere sempre più accentuato: si sentiva sempre più stanco, fiacco, si trascinava, quasi, negli ultimi giorni, finché si mise a letto e si addormentò, per non alzarsi mai più. Neppure lui era sfuggito al basalèsk.


Talamona

Il già citato Aurelio Garobbio, nella bella raccolta “Montagne e Valli incantate”, (Rocca San Casciano, Cappelli, 1963, pg. 146), menziona un basilisco che infestava la vicina Costiera dei Cech: "L'immondo basilisco brucia con il fiato i raccolti della solatia costiera dei Cech".

Sempre sul versante orobico, ma più ad oriente, sembra vivesse un altro basilisco: diversi pastori, all'inizio del secolo scorso, raccontavano di averlo avvistato in val Caronno, fra i cespugli di rododendri. Si trattava di un grosso serpente dalla testa sormontata da una cresta rossa, quasi fiammeggiante, spessa almeno un dito, e dalle pupille che ruotavano nelle orbite.
Come già detto, il basilisco veniva spesso immaginato come animale mezzo gallo e mezzo drago volante, ed era temutissimo dai contadini, perché si credeva che potesse incenerire una persona con il solo sguardo (ed in effetti, etimologicamente, “drago”, dal greco “drakon”, è l’animale che ti punta contro lo sguardo, che vede con sguardo acuto in lontananza). Si credeva anche che il basilisco nascesse dal centesimo uovo deposto da una gallina, più piccolo di quelli normali e senza tuorlo, o anche da un uovo deposto da un gallo. Se lo si trovava, lo si doveva gettare subito alle proprie spalle, e non ci si doveva girare per nessun motivo, neppure se si sentivano rumori raccapriccianti: in caso contrario, il mostro sarebbe uscito dall’uovo dischiuso, ed allora erano guai.


Rifugio Mambretti

Nella vicina Val Bregaglia, per la precisione a Bondo, la credenza nel basilisco era assai radicata: lo si immaginava come una specie di gallo selvatico dall'aspetto insolito e dal comportamento molto aggressivo: "balza addosso all'uomo con balzi prodigiosi, schizzando veleno e rincorre chi fugge; soffia come un gatto e talvolta emette fischi spaventosi, che fanno impazzire il bestiame sul pascolo. Il potere fascinatorio del suo sguardo è pericoloso e anche mortale; il basilisco offende: stordisce la preda, incanta chi vede anche da lontano; chi è colpito dal suo sguardo perde la parola o muore; se è lui il primo a veder gli altri, questi muoiono subito, se invece sono gli altri a veder lui, è lui che muore" (citato da "E le stelle stanno a guardare", articolo di Remo Bracchi sul numero 54 del 2001 del Bollettino della Società Storica Valtellinese).
Remo Bracchi (cfr. articolo citato) ricorda che in diversi dialetti valtellinesi resta il riferimento al basilisco, in espressioni come "basalìsch" (detto, a Frontale, di un ragazzo discolo o addirittura furfante), "brut basalìsch" (detto, a Grosio, di un ragazzo eccessivamente vivace), "brut serpént di li àla vérda" ("brutto serpente dalle ali verdi", detto, a Sondalo, di un ragazzo scatenato). Un riferimento a questo mostro alato, in una curiosa versiona antropomorfa, si trova nei verbali di interrogatorio in un processo per stregoneria intentato, a Bormio, nel 1631 contro una tale Caterina figlia di Vasino Mastino detto Sbòp: un testimone riferisce che, durante una cena con l'imputata, vide venire sopra la cima degli alberi "un huomo fatto di tre colori, rosso, uerde et giallo; et haueua una coda sparpagliata rossa, et caminaua pian piano assai commodamente."
In quel di Livigno il basilisco è manifestazione del maligno stesso. Si immaginava che, con i suoi occhi fiammeggianti, vagasse di notte, in cerca di anime da trascinare con sé all'inferno. In particolare, erano le fanciulle ad essere maggiormente esposte a questo pericolo, il pericolo della tentazione, tanto che le nonne le ammonivano con una frase che si ripeteva di generazione in generazione: "sfuggi alla tentazione, il basilisco ti porta alla perdizione".
Il diavolo, infatti, secondo antiche leggende, si presentava sotto forma di orrendi animali: il basilisco dall'occhio di fuoco, che andava nelle notti di plenilunio a caccia di anime al Grasso di Pra Grata, e la volpe maschio, dal pelo irto e coperto di aculei, che nei giorni del “solastro” veniva giù dalla Valle dell'Orsa, in cerca di cristiani da divorare. La vide, una volta, il coraggioso Stefanìn, venire giù dalla cima Serraglio. Se ne stava presso il crocifisso vicino alle pareti della cima, e non indietreggiò, ma, invocando la potenza divina e quella di San Michele, capo dell'esercito degli angeli, ingiunse alla belva di andarsene. Le sue parole provocarono una spaventosa saetta che colpì la belva, precipitandola sul fondo della valle. La leggenda narra, poi, che al coraggioso Stefanin capitò di trovare lo stesso crocifisso caduto giù dalla Cresta Serraglio e stretto nella morsa del gelo.
Riconoscente per l'aiuto che gli aveva prestato quella volta di fronte alla volpe-diavolo, lo portò a casa sua, lo riscaldò e gli promise che l'avrebbe rimesso al suo posto. Questo avvenne, e fu così che Stefanin sentì tutto l'orgoglio di aver potuto ricambiare l'aiuto che gli era venuto dal Signore. La storia, però, non termina qui: al pastore era apparso anche lo spirito del nonno Stefanon, che gli aveva detto come liberarsi definitivamente dal basilisco-demonio: bisognava sorprenderlo nelle notti di novilunio e centrarlo, con un colpo di carabina, proprio nell'occhio di fuoco con il quale stregava e portava via le anime.
Ma, per equità, dobbiamo dar voce anche agli scettici, a coloro che credono il basilisco null’altro se non un frutto della fantasia delle genti di montagna, in tempi nei quali solitudine e durezza delle condizioni di vita alimentavano l’immagine di una natura tutta popolata da mostri ed esseri fantastici. Scegliamo come campione degli scettici Bruno Galli Valerio, naturalista ed alpinista, che molto frequentò ed amò Alpi Retiche ed Orobie fra la fine dell’Ottocento ed il primo decennio del Novecento. A lui la parola: “E per prima la leggenda del basilisco, il serpente dalla cresta rossa, che si vede di quando in quando sui pascoli di Caronno.
- L'hai mai visto? domandai un giorno a un pastore.
- Sì l'ho visto, rispose sgranando gli occhi, e indicando col dito, tenendosi a rispettosa distanza, la bella vipera stesa nella mia scatola dell'erbario, in mezzo ai fiori dai colori brillanti, l'ho visto, come vedo questo serpente.
Ciò che il pastore diceva di aver visto, era il grande serpente dalla cresta di fuoco, con gli occhi che ruotano nelle orbite: il basilisco. La cresta era almeno dello spessore di un grosso dito. L'aveva proprio visto lassù nei cespugli di rododendri della valle di Caronno, e potete immaginare il suo spavento. Non aveva avuto il coraggio di seguirlo come ora non osava toccare la mia vipera, nonostante fosse morta. Non si sa mai! E tutti gli altri pastori erano raggruppati intorno a noi, gli occhi fissi sulla povera vipera, le orecchie tese al racconto fantastico del loro amico. E a poco a poco, sotto l'influenza suggestiva delle parole, la mia vipera appariva ai loro occhi sempre più grande, la cresta cominciava a comparire sulla testa, una cresta ancora piccolina, appena visibile, gli occhi cominciavano a muoversi nelle orbite...e un anno dopo, tutti lassù raccontavano la storia fantastica di un grosso serpente dalla cresta rossa, che io avevo ucciso sui pendii dello Scotes che tutti avevano visto, gli occhi giravano ancora nelle orbite, nella mia scatola erbario!
La leggenda del basilisco era stata così interamente confermata dai fatti ed ora non poteva più essere messa in dubbio dai giovani pastori che, oramai potevano testimoniare coi vecchi l'esistenza di quella orribile bestia, là, in mezzo alle Alpi orobie...Un giorno o l'altro, mi vorranno come testimone!” (Bruno Galli Valerio, Punte e passi, a cura di Luisa Angelici ed Antonio Boscacci, Sondrio, 1998).
Ecco, poi, un interessante riferimento letterario che ci porta nella cornice della Valle del Bitto di Gerola. Cirillo Ruffoni, nel romanzo storico "In nomine Domini - Vita e memorie di un comune della Valtellina nel Trecento" (Tipografia Bettini, Sondrio, 1998), riporta il seguente dialogo fra una bisnonna ed i suoi nipoti:
“- E' vero che alcuni serpenti incantano con gli occhi e bisogna stare attenti a non guardarli?
- Così dicono. Ricordo che tanti anni fa un mio zio mi raccontava di quella volta che aveva visto su un albero un uccellino che pigolava disperatamente. Saltellava da un ramo all'altro e sbatteva le ali per volare, ma non riusciva e così continuava a scendere sempre nel ramo più basso. Lo zio, incuriosito per quel fatto strano, si era avvicinato e sotto quell'albero, nascosto in un cespuglio, aveva visto un serpente con le spire disposte a cerchi e la testa eretta, che fissava l'uccellino. Con il bastone lo zio aveva tagliato quella specie di filo invisibile che attirava verso il serpente l'uccellino, che era riuscito finalmente a volare via libero.
- Se non c'era lo zio, cosa succedeva?
- L'uccellino sarebbe finito certamente fra le spire di quel serpente.
- E' la vipera il serpente più velenoso?
- La vipera è pericolosa e dovete sempre stare attenti a non camminare nell'erba a piedi nudi, ma il basilisco è molto più pericoloso. Per fortuna ce ne sono pochi.
- Che cos'è il basilisco?
- E' uno strano animale con la testa grossa, il corpo corto e tozzo come un tronco ed è senza coda. Inoltre ha due ali come quelle dei pipistrelli, che gli permettono di fare dei gran balzi.
- Tu, nonna, l'hai visto?
- No, sono poche le persone che hanno potuto vederlo, perché vive solamente nei posti più isolati dove non passa mai nessuno. Raccontano che, quando è fermo con le ali chiuse, sembra un bambino appena nato avvolto nelle fasce, ma è molto brutto ed è pericoloso. La cosa più straordinaria, però, è che tiene sempre in bocca una pietra preziosa: un rubino rosso, grosso come una noce, che lascia solo quando deve mangiare.
- E non si può portarglielo via?
- Guai a toccarlo! Raccontano che una volta un carbonaio, mentre lavorava nel suo "aial", aveva visto un basilisco, l'aveva spiato di nascosto, poi, quando quello aveva lasciato il prezioso rubino, era corso fuori e l'aveva preso tutto contento, pensando di aver trovato finalmente la ricchezza. Ma il giorno dopo il carbonaio era stato trovato morto, ucciso dal veleno di quel terribile animale.”


Tramonto sulla bassa Valtellina

Nel dubbio sulla sua corretta collocazione, iscriviamo, infine, d'ufficio nella famiglia del basalèsk il misterioso "trinchèt", descritto, dai testimoni che giurano di averlo visto saltar giù dai muretti dei ronchi in quel di Ponte in Valtellina, come draghetto piumato. Se non è una variante del basalèsk, è comunque un suo non lontano parente.
Chiudiamo questa rapida carrellata menzionando il "cugino" del basalèsk, cioè quell'animale immaginario che più gli assomiglia, anche se è meno diffuso nelle leggende valtellinesi ed alpine in generale. Si tratta della salamandra (anche in questo caso, non ci si riferisce all'anfibio realmente esistente, ma ad essere immaginario), la cui caratteristica più nota è quella di essere rivestita di un pelo che non può in alcun modo essere bruciato dal fuoco. Il suo nome deriva, infatti, dal termine arabo che designa l'amianto: in effetti nel Medio Evo, quando questa fibra era rarissima, si credeva che provenisse dal pelo dell'animale.

APPENDICE: UNA SEGNALAZIONE DAL VICENTINO

"Vorrei segnalare due testimonianze pressochè identiche, e indipendenti, da me raccolte per caso nella zona dei colli Berici, in provincia di Vicenza. Si riferiscono entrambe agli anni '60-''70, entrambe avvenute in zona collinare e rocciosa (due località a 10 km circa di distanza) e riguardanti un rettile di 60 cm di lunghezza circa, diametro di 15 cm, dotato di una sorta di cresta e di due sole possenti zampe che gli permettevano, stando alle testimonianze, di effettuare balzi notevoli. Entrambe le persone che avevano, ai tempi, segnalato questo avvistamento, sono da ritenersi attendibili, anche se nessuno sembra aver mai preso seriamente la loro esperienza. Addirittura uno dei due raccontava di aver visto ripetutamente questo strano animale nei pressi del proprio terreno e, riferiscono i parenti, sembrava terrorizzato dalla cosa, tanto che era giunto a rifiutare di avvicinarsi a quell'area. Vorrei evidenziare il fatto che i colli Berici sono di origine carsica, presentano enorni e fitte cavità nel sottosuolo, perciò credo non sia da escludere la sopravvivenza di qualche rara specie probabilmente in via di estinzione, o già estinta. O forse, come sostiene qualcuno, si tratta esclusivamente di suggestioni o fervida immaginazione...
Grazie per l'attenzione, cordiali saluti,
Marzia Dal Lago
"
Dopo questa interessante testimonianza, la caccia (fotografica) al basilisco è ufficialmente aperta...

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