Arcobaleno ardennese

L’arcobaleno appare abbastanza raramente, e quando accade pochi hanno tempo e modo di volgere gli occhi al cielo per accorgersene. Questi pochi ne apprezzano in genere l’aspetto estetico, ma non sono colti da meraviglia, stupore, apprensione: niente più che un bel fenomeno di rifrazione della luce solare nelle gocce sospese, che ne provoca la scissione nei colori dell’iride.
Non così in un passato lontano. Proprio da Taumante, infatti, il dio della Meraviglia, gli antichi Greci fecero nascere Iris, che si mostrava nel suo vestito di variopinte gocce di rugiada e portava agli uomini i messaggi degli dei. Iris era tanto bella quanto inquietante, e non per nulla aveva come sorelle le terribili arpie, metà donne e metà uccello. I suoi messaggi per gli uomini erano perlopiù nefasti.
Così l’occhio greco guardava all’arcobaleno, come immagine della bellezza che nasconde un lato misterioso e terribile. Analogamente, l’occhio dell’antica civiltà cinese vedeva nell’arco colorato la manifestazione di un terribile drago a due teste, l’una rivolta al cielo, l’altra alla terra. Una porta aperta fra le dimensioni celeste e terrena è anche l’arcobaleno-arco di Bifrost, della mitologia scandinava, l’arcobaleno-corona di piume della divinità guerriera degli Incas o l’arcobaleno-arco di Indras, il dio dei temporali, nella mitologia Indù. Un ponte fra due mondi radicalmente diversi, o anche una scala curva sulla quale Buddha, secondo la tradizione del Biddhismo tibetano, ridiscende dal cielo. Ma anche un diaframma e quasi una cicatrice fra cielo e terra: sempre nella mitologia cinese l’arcobaleno viene presentato anche come una spaccatura nel cielo sigillata dalla dea Nuwa con pietre di diversi colori, che realizzano l’unione e l’armonia dei principi fondamentali dello yin e dello yang.


Arcobaleno che termina ai maggenghi sopra Talamona

Anche il racconto biblico (Genesi 9, 12-16) raccorda l’arcobaleno ad un riavvicinamento fra l’umano ed il divino: dopo il diluvio universale, Dio lo disegna nel cielo per significare la nuova alleanza e la promessa di non scatenare mai più un evento così distruttivo. Speranza ed apprensione, dunque, accompagnavano gli sguardi degli antichi rivolti a questo arco di luce, nel quale si mostrano diversi colori (non tutti e sette i colori dell’iride, come di solito si pensa, ma di solito tre).
Le credenze che si connettono in vario modo a questi significati fondamentali sono molteplici. La più nota, di origine irlandese, vuole che l’estremità dell’arco tocchi la terra in un punto nel quale è custodito un tesoro, una pentola d’oro custodita da Leprechaun, gnomo ciabattino dedito alla burla che ha come vittime privilegiate ladri e avari. L’idea che ad un estremo dell’arcobaleno vi sia un tesoro è assai diffusa, e trova un’eco anche da una credenza alimentata dai vecchi della Val Tartano: là dove l’arcobaleno si congiunge alla terra, vi dissemina pepite d’oro. Non manca un fondo di burla, perché questo punto non esiste. Chi volesse correre (e c’è da correre, perché notoriamente l’arcobaleno è arco baleno, cioè si mostra e scompare in un baleno) verso il suo estremo non solo non troverebbe l’oro, ma non vedrebbe neppure più nulla in cielo, perché essendo l’arco luminoso un effetto ottico, si mostra diversamente da diversi punti di vista. Une bella metafora delle colorate illusioni che ci attraggono e deludono.


Arcobaleno alle cascate dell'Acquafraggia

Più prosaicamente, però, nel mondo contadino prevale la valenza prognostica del fenomeno celeste: annuncia la fine o il ritorno della pioggia? La risposta rimanda ancora all’estremo terrestre dell’arcobaleno: se esso termina ad un fiume, allora si può credere che “beva” e quindi porti altra acqua in cielo. Così, venendo in quel di Valtellina, si dice a Tirano: “”Se l’acubalénu al va a béef, al turna acqua”. Similmente si dice a Grosio: “Se l’acrubalén al g’à la testa gió in de l’aqua al vén a piover, ma se al va da muntagna a muntagna al vén al bèl”. Ed ancora, a Livigno: “Sa l’arcobaléno al toca l’aqua, al böf e al vegn da plòar emó”, cioè se l’arcobaleno tocca l’acqua, beve e torna a piovere; ed anche “se l’arcobaléno l lüga ó in de l’aqua al ségna brut”, cioè se l’arcobaleno arriva all’acqua, segna brutto tempo. Ma si può anche credere che faccia il contrario, cioè sputi l’acqua del cielo in terra. Tale è il significato del proverbio in Albosaggia “Quan che l’arcobaleno al posgia sgió’n de l’aqua, al ségna al bèl”.
A Bormio mettono insieme i due pronostici, affermando che se l’arcobaleno affonda la testa nell’acqua, tornerà a piovere, se affonda la coda invece verrà il bello. E qui riappare in filigrana l’immagine del drago, cioè del serpente alato che solca il cielo (anche se nell’immaginario europeo l’arcobaleno viene associato pure ad aniimali diversi, verme, bue, vacca, vitello, capra, balena, volpe, orso, donnola, lupo, cane, maiale e civetta). In diversi dialetti lombardi l’arcobaleno è infatti chiamato dragh o cóva (coda) del dragh. Il che ci riporta alle credenze legate all’oro, perché una delle funzioni che i miti di civiltà diverse hanno assegnato ai draghi è quella appunto di custodire tesori.


Arcobaleno che punta a Rodolo

Ma i pronostici legati all’arcobaleno non si limitano al tempo che farà nell’immediato. A seconda del colore dominante l’arcobaleno annuncia, secondo i Livignaschi, cose importanti: il giallo raccolti abbondanti, il viola lutti, il verde speranza. Infine, Se transitiamo, poi, a volo di drago, dall’alta Valtellina alla vicina Valmalenco troviamo un’espressione curiosa, “al lónch e ‘l larch”, dove si capisce il riferimento alla lunghezza, meno quello alla larghezza, dato che gli arcobaleni non sono mai realmente larghi. Ma con tutta probabilità “’l larch” era originariamente “l’arch”, cioè l’arco, e non il largo.
Accanto a questa designazione neutra altre ve ne sono decisamente più inquietanti. un’espressione del dialetto tellino chiama infatti l’arcobaleno “ul mànech de la culdéra del diàul”, cioè il manico del pentolone del diavolo, dove l’immagine del pentolone rimanda alla cavità ardente dell’inferno. Difficile capire esattamente la radice di questo riferimento. Rimanda, forse, alla credenza che l’aria fosse la dimora privilegiata degli spiriti maligni, quindi l’elemento più insidioso, per cui i segni d’aria possono avere un’ingannevole attrattiva. O anche alla credenza che tutto ciò che perturba l’aspetto consueto del cielo ha in genere una valenza nefastaa.
Così secondo una credenza attestata in diversi luoghi d’Italia, ma anche di Grecia, Albania o Romania, passare sotto un arcobaleno significa andare incontro a conseguenze negative, come ammalarsi d’itterizia (la cosiddetta malattia dell’arco o dell’arcobaleno) o cambiare sesso. L’espressione “marsceria”, cioè marciume, usata per designare l’arcobaleno in alcuni dialetti ticinesi condensa efficacemente questi aspetti negativi.


Arcobaleno alle cascate dell'Acquafraggia

Ma forse la prima impressione non inganna. Forse l’arcobaleno è davvero breve tripudio di colori che lascia intravvedere uno spiraglio della luce paradisiaca. Alfredo Martinelli scrive:“Quando l’arcobaleno sovente s’incurva sopra Tirano nelle liete stagioni e specie di maggio, esso appare come una singolare lama lucente che taglia il cielo sopra la Basilica come un frutto maturo. Le nonne e le mamme allora spiegano ai figlioli la storia di Frate Giovanni di Novaglia e di Gesù, che in certe ore di primavera, lanciando stelle filanti nel cielo,...” (Da “L’erba della memoria. Leggende e racconti valtellinesi”, Bissoni, Sondrio, 1964).
Che dire? La lettura della monumentale opera di Remo Bracchi “Nomi e volti della paura nelle valli dell’Adda e della Mera” (ed. Max Niemeyer Verlag Tübingen, 2009) potrà offrire ai curiosi una gran messe di ulteriori riferimenti al mistero della natura fascinosa e tremenda dell’arcobaleno.
Anche se per il vero oggi nessuno più si porrebbe davvero il problema di come interpretarlo. Quando viene, per quel poco che viene, fa alzare al cielo gli occhi per breve tempo. Poi sbiadisce e di dissolve, come tante cose belle, sempre troppo brevi.


Arcobaleno sondriese

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