Cima da Lagh in Val di Lei

Il pizzo Emet (chiamato Timùn sulle carte svizzere) è la più alta elevazione della lunga dorsale che separa la Val di Lei, ad est, dall'elvetica Val di Niemet e l'italiana Val Scalcoggia, ad ovest. Si tratta di una cima molto ambita e frequentata da alpinisti che in genere si appoggiano al vicino rifugio Bertacchi, ma la sua salita propone un passaggio delicato, che supera le capacità dell'escursionista, per quanto esperto. A titolo di consolazione questi può programmare, in 3 o 4 giorni, una bella escursione ad anello che vi gira attorno, toccando scenari e paesaggi davvero molto belli ed in parte inusuali. In 4 giorni con tutta la calma del caso ma anche in 3, riunendo in una sola giornata, se ben allenati, le prime 2 tappe) possiamo, infatti, da Fraciscio salire al rifugio Chiavenna, traversare il passo dell'Angeloga, percorrere l'intera Val di Lei, scendere ad Innerferrera e risalire per l'intera Val Nieme, rientrare in Italia per il passo di Emet, passare per il rifugio Bertacchi e ridiscendere infine a Fraciscio. L'anello non propone difficoltà tecniche e neppure particolari difficoltà di orientamento: richiede solo, ovviamente, un buon allenamento fisico.

ANELLO DEL PIZZO EMET - 2 - RIFUGIO CHIAVENNA-RIFUGIO BAITA DEL CAPRIOLO

Punti di partenza ed arrivo
Tempo necessario
Dislivello in salita/discesa
in m.
Difficoltà (T=turistica, E=escursionistica, EE=per escursionisti esperti)
Rif. Chiavenna-passo dell'Angeloga-Alpe Mulacetto-Rifugio Baita del Capriolo
6-7 h
340/430
E
SINTESI. Dal rifugio Chiavenna (m. 2044), seguendo le indicazioni del sentiero C3, procediamo in direzione nord-est, sfruttando diversi tornanti su ripido versante, che ci portano proprio a ridosso delle formazioni rocciose terminali. Poco prima di raggiungerle il sentiero ci propone anche un passaggio un po’ esposto, che va affrontato con concentrazione. Poi, ecco il corridoio che si apre fra le rocce, e nel quale si infila un piccolo corso d’acqua: alcuni gradini ed alcune corde fisse ci permettono di superare quest’ultimo ostacolo, prima di uscire ad un nuovo ampio scenario, dominato dal lago Nero (m. 2352). Percorriamo il lato settentrionale (di sinistra, per noi) del lago, seguendo il sentiero per il passo di Angeloga. Procedendo verso est-sud-est passiamo accanto al laghetto delle Streghe e ci portiamo al corridoio del passo dell'Angeloga (m. 2391, piccola croce in legno). Ci affacciamo all'ampia Val di Lei. Seguendo i segnavia del sentiero C5 che, nel primo tratto, coincide con il C3. Non scendiamo in direzione del lago Ballone, ma restiamo alla sua sinistra, procedendo verso nord. Raggiunto il torrentello che più in basso confluisce nel lago, pieghiamo a sinistra infilandoci in un corridoio erboso, poi a destra ed a sinistra, superando un secondo torrentello. Siamo sempre alti rispetto alla conca del lago e superiamo un terzo torrentello, piegando a destra e di nuovo a sinistra, attraversando un ripiano in direzione di uno zoccolo di roccette. Qui, al bivio di quota 2310, i sentieri C3 e C5 si separano. Seguendo il C5 allunghiamo i tempi di 30-40 minuti, ma abbiamo meno problemi di orientamento in caso di scarsa visibilità. In tal caso andiamo a destra. La successiva discesa procede su un largo dosso, in direzione sud-est, fino a quota 2220, dove il sentiero piega a sinistra ed assume l’andamento nord-est, inanellando una lunga serie di tornantini. A quota 2120 volgiamo ancora a destra (sud-est), giungendo in vista delle baite dell’alpe Mottala. Il sentiero si avvicina al solco della valle del torrente che scende dal lago Ballone e, piegando a sinistra (andamento est), scende con una serie di tornantini diritto all’alpe, che si trova sul limite meridionale del lungo lago di Lei (oltre 8 km). Percorriamo ora verso sinistra la pista sterrata che costeggia l’intera sponda occidentale del lungo lago di Lei, fino al camminamento della diga sul limite settentrionale del Lago di Lei. Qui per breve tratto entriamo in territorio elvetico, al quale appartiene lo sbarramento della diga. Non procediamo sul camminamento, ma andiamo diritti, verso nord, seguendo una stradina che rientra in territorio italiano e ci porta al rifugio Baita del Capriolo (bandiera italiana, m. 1961), all'alpe del Crot, dove pernottiamo. In caso di buona visibilità conviene però, al bivio di quota 2310 metri, seguire il sentiero C3, cioè quello di sinistra, più breve e più vario. In tal caso superate con tratto protetto da muretto a secco alcune roccette iniziamo un lungo traverso in graduale discesa verso nord-nord-est, su facili balze ed avvallamenti. Intercettato il marcato sentiero che scende dal versante meridionale della Val Caurga, pieghiamo a destra ed iniziamo una discesa più diretta verso est, con alcuni tornantini, fino a raggiungere la pista che segue il lato occidentale del Lago di Lei in corrispondenza delle baite dell'alpe Mulacetto (m. 1956). Seguiamo ora la pista sterrata verso sinistra, iniziando la lunga e un po' monotona traversata verso nord che termina allo sbarramento della diga del Lago di Lei. Il camminamento è in territorio svizzero, e sul lato opposto giunge la strada che viene usata per salire fin qui in automobile. Noi però non pieghiamo a destra per impegnare tale camminamento, ma procediamo diritti, imboccando la stradina che procede verso nord ed in breve ci riporta in territorio italiano. La seguiamo per un breve tratto, fino a raggiungere le baite dell'alpe Crot, presso le quali si trova il rifugio Baita del Capriolo (m. 1961), dove pernottiamo.


Apri qui una fotomappa della discesa in Val di Lei dal bivio di quota 2310 (sentieri C3 e C5)

La seconda tappa dell'anello del pizzo Emet prevede la salita dal rifugio Chiavenna al passo dell'Angeloga, che ci permette di accedere alla solitaria ed amplissima Val di Lei, che poi dobbiamo percorrere interamente (oltre 8 km) fino al limite settentrionale dell'enorma lago che ne occupa il fondo, per raggiungere il rifugio Baita del Capriolo, punto di appoggio per il pernottamento. In condizioni di allenamento molto buono la traversata da Fraciscio al rifugio Baita del Capriolo può essere sostenuta in una sola giornata.
In prossimità del rifugio Chiavenna partono tre sentieri, quello sfruttato per l’ascensione al pizzo Stella, quello che, in direzione opposta, effettua una bella e facile traversata di mezza costa alla Motta di Madesimo (C10) e quello che sale diritto al ripiano del lago Nero (C3). Quest’ultimo si inerpica sull’erboso e ripido versante che scende all’alpe dall’ultimo gradino roccioso, che la separa dalla piana del passo di Angeloga.
Riprendiamo, quindi, il cammino in direzione nord-est, sfruttando diversi tornanti che ci portano proprio a ridosso delle formazioni rocciose terminali. Poco prima di raggiungerle il sentiero ci propone anche un passaggio un po’ esposto, che va affrontato con concentrazione. Poi, ecco il corridoio che si apre fra le rocce, e nel quale si infila un piccolo corso d’acqua: alcuni gradini ed alcune corde fisse ci permettono di superare quest’ultimo ostacolo, prima di uscire ad un nuovo ampio e bellissimo scenario, dominato dal lago Nero (m. 2352).
A dispetto del nome, questo lago non ha nulla di tetro, anzi, in una bella giornata, regala riflessi di un blu intenso. Alla sua destra, è sempre il pizzo Stella a farla da padrone, anche se ora il suo primato è insidiato dal pizzo Peloso (m. 2780), dal profilo, oltre che dal nome, assai meno elegante. Percorriamo, dunque, il lato settentrionale (di sinistra, per noi) del lago, seguendo il sentiero per il passo di Angeloga.
Raggiunto il suo limite orientale, lasciamo per un po' il sentiero, piegando a destra e passando a valle di un piccolo specchio d'acqua: dopo una breve salita su un dosso erboso, giungiamo a scovare un secondo e più piccolo lago, il lago Caldera (m. 2369), che dal sentiero non si vede. Questa breve digressione ci costa pochi minuti di cammino supplementare, ma ci regala uno scorcio panoramico di grande suggestione, che coniuga le scure acque del lago allo svelto profilo del pizzo Stella, che occhieggia alle sue spalle.
Tornati al sentiero, lo percorriamo verso il passo, incontrando ancora un piccolo specchio d’acqua, sinistramente denominato “Lago delle Streghe”. Se ne fa menzione nell’incantevole volumetto di don Abramo Levi, “Spartiacque”, (L’Officina del Libro, Sondrio, 2004): “…il … Lago delle Streghe, …  a dispetto del nome, si presenta come un laghetto ameno, inoffensivo, di un ovale quasi perfetto. Ma non si sa mai. Non si sa mai donde possa venire lo stregamento, e in quale veste esso si presenti: folletto, turbine, incantesimo, allucinazione, sbigottimento, incubo, oppure scontro anomalo fra il fuori e il dentro, tra il mare immenso del mondo e la piccolissima vela che lo solca ancorata unicamente al principio di individuazione.”
Ma nessuno stregamento ci potrà impedire di varcare la soglia del passo di Angeloga, a 2391 metri di quota, una piccola porta fra le rocce arrotondate: probabilmente non ce ne accorgeremmo, se non vi fosse una piccola croce di legno che lo segnala. Eppure proprio qui passa lo spartiacque che separa il bacino del Po da quello del Reno. La Val di Lei, alla quale accediamo valicando il passo, appartiene infatti, idrograficamente, al territorio svizzero, anche se politicamente è ancora territorio italiano. La particolarità della valle è accresciuta dalla presenza di un enorme bacino artificiale, dalla capacità di oltre 200 milioni di metri cubi, il cui sbarramento rientra nel territorio della Svizzera, cui è riservato, quindi, lo sfruttamento idroelettrico.
La valle non appare improvvisamente, oltre il passo, ma si mostra gradualmente. Appare, innanzitutto, la sua costiera orientale, che impressiona per il senso di solitudine suscitato dalla mancanza di segni di insediamento umano, e cominciano a mostrarsi, alla nostra destra, anche le eleganti cime che costituiscono la testata est della val di Cà, prolungamento meridionale della Val di Lei: si tratta della cima di Lagh, o cima di Lago (m. 3083), la punta Rosso (m. 3053) ed il pizzo Bles (m. 3045), ai cui piedi si stendono alcune piccole vedrette. Comincia ad intravedersi, ancora più a destra, anche il ghiacciaio ai piedi del versante settentrionale del pizzo Stella, chiamato ghiacciaio Ponciagna.
La diga di Val di Lei è una delle più grandiose mai realizzate. Un accordo italo-elvetico la colloca in territorio italiano ma concede agli svizzeri lo sfruttamento energetico delle acque. All’epoca della sua costruzione, che durò dal 1958 al 1960, si trattava della più grande diga del mondo, larga 690 metri ed alta 143, con uno spessore di 28,10 metri alla base e 15 alla sommità. Sotto la direzione della Edison di Milano, che l’aveva anche progettata, vi lavorarono fino a 3390 operai, non solo valchiavennaschi e valtellinesi, ma anche provenienti da diverse regioni italiane (in particolare Veneto, Calabria e Sicilia). Un elevato numero di questi vi perse la vita. Il bacino, lungo oltre 8 km., contiene circa 200 milioni di metri cubi d’acqua, convogliati qui da un complesso sistema di gallerie dalle valli di Madris, Avers e Niemet. A corredo della diga furono costruite 58 km di strade e gallerie, 10 teleferiche, 4 sbarramenti supplementari, 13 prese d’acqua sui torrenti, 56 km di gallerie, 3 centrali idroelettriche e 108 km di elettrodotti. Le sue acque, che raggiungono la quota di 1931 metri s.l.m., seppellirono la chiesetta di S. Anna e nove km della strada comunale Savogno-Alpigia-Val di Lei, con l’osteria del Palaz e gli alpeggi di Rebella e Guardanegra, toponimi che alludono ad antiche credenze legate a fanciulle bellissime ed a malefiche presenze dallo sguardo mortifero, oltre agli alpeggi di Palù, Salina, Crot e Motta. Curiosamente, non fu questo enorme lago a dare il nome alla valle, ben più antico, ma il lago dell’Acquafraggia, sul versante della Bregaglia italiana, perché questa valle era economicamente e storicamente legata a Piuro.


Apri qui una fotomappa della traversata dal passo di Sterla settentrionale al rif. Chiavenna

Il nome della valle significa "Valle del Lago"; ma richiama anche una misteriosa presenza femminile, suggerita anche da antiche leggende.
Appena valicato il passo, ecco, qualche decina di metri sotto di noi, un altro bel lago, il lago Ballone (termine che deriva da “pallone”; m. 2321). Forse troveremo anche qualche capo di bestiame, perché i pascoli della Val di Lei sono particolarmente pregiati.

Per illustrare meglio le caratteristiche di questi luoghi, riportiamo le informazioni che ci vengono offerte dal bel volume "Laghi alpini di Valtellina e Valchiavenna", di Riccardo De Bernardi, Ivan Fassin, Rosario Mosello Rosario ed Enrico Pelucchi, edito dal CAI, sez. di Sondrio, nel 1993:
Nell'alto bacino del Torrente Rabbiosa, che si riversa nel Liro a Campodolcino, molto sopra l'abitato di Fraciscio, c'è un'area alpestre ricca di laghi, siti a quote diverse, ma sostanzialmente su due piani: quello dell'Alpe Angeloga (attorno ai 2000 m) e quello del Passo dell'Angeloga Laghetto al passo di Angeloga. Foto di Massimo Dei Cas www.paesidivaltellina.it(attorno ai 2350 m). Il Lago di Angeloga è una
pozza rotonda di acqua verde che riflette i pascoli circostanti, un tempo assai importanti e floridi, un elemento ideale di una segantiniana «abbeverata».
Gli altri laghi stanno in tutt'altro ambiente, cioè su un alto scalino roccioso in un piccolo altipiano sopra il quale un ghiacciaietto sospeso, in epoche arcaiche, ha scavato le fosse in cui stanno i laghetti, ha accumulato le morene e i massi, ha modellato i dossoni di friabile roccia scistosa. Il Lago «Nero», certo dal colore prevalente delle acque, soggette però a quella quota e in un ambiente siffatto a mutevoli giochi di luce; il Lago Caldera forse così denominato dalla forma vagamente rotondeggiante e dall'essere affossato entro pendii più incombenti. Ma ve ne sono altri minori e, poco in là dal passo, già in Val di Lei, ancora altri molto piccoli e uno maggiore (Lago Ballone), in una continuazione del pianoro glaciale che costituisce oggi anche un punto di osservazione eccezionale sul sottostante lunghissimo lago artificiale che occupa il fondo della Val di Lei.
Sentiero per Mottala e cima di Lago. Foto di Massimo Dei Cas www.paesidivaltellina.itSi tratta, nel complesso, di un ambiente straordinario, anche per la presenza incombente del Groppera e la vista sul Pizzo Stella, per il colpo d'occhio su tutto l'anfiteatro sottostante, per la varietà dei microambienti fisici e biologici.
Certo il luogo non è di comodissimo accesso, sia che si salga da Fraciscio lungo la bella mulattiera che percorre la vallata, sia che si parta da Motta di Campodolcino, a una quota sensibilmente superiore, per poi affrontare lo scenografico sentiero che sale (e scende) lungo le pendici meridionali della Colmenetta e del Groppera, sotto gli spuntoni della suggestiva costa di Fortezza sempre con una vista meravigliosa sulle vallate sottostanti. Poi, una volta raggiunta l'Alpe Angeloga per l'una o per l'altra delle due vie, ancora non è finito il cammino, perché per raggiungere i laghi superiori si deve risalire una ripida costa-canale erbosa e percorrere una breve gola scavata nelle rocce dello spalto roccioso, subito a valle del Lago Nero. L'impressione, alla fine del viaggio, è di essere penetrati in uno spazio magico, inaccessibile, regno della luce e del vento.”

E' tempo di rimetterci in cammino dal lago Ballone. Scendendo sul sentiero che passa a sinistra del lago, dopo un paio di svolte, troviamo, a quota 2310, un bivio, al quale i sentieri C3 e C5 si separano.


Il bivio a quota 2310 metri (sentiero C3)

Seguendo il C5 (quello di destra) allunghiamo i tempi di 30-40 minuti, ma abbiamo meno problemi di orientamento in caso di scarsa visibilità. In tal caso andiamo a destra. La successiva discesa procede su un largo dosso, in direzione sud-est, fino a quota 2220, dove il sentiero piega a sinistra ed assume l’andamento nord-est, inanellando una lunga serie di tornantini. A quota 2120 volgiamo ancora a destra (sud-est), giungendo in vista delle baite dell’alpe Mottala. Il sentiero si avvicina al solco della valle del torrente che scende dal lago Ballone e, piegando a sinistra (andamento est), scende con una serie di tornantini diritto all’alpe, che si trova sul limite meridionale del lungo lago di Lei (oltre 8 km). Percorriamo ora verso sinistra la pista sterrata che costeggia l’intera sponda occidentale del lungo lago di Lei, fino al camminamento della diga sul limite settentrionale del Lago di Lei. Qui per breve tratto entriamo in territorio elvetico, al quale appartiene lo sbarramento della diga. Non procediamo sul camminamento, ma andiamo diritti, verso nord, seguendo una stradina che rientra in territorio italiano e ci porta al rifugio Baita del Capriolo (bandiera italiana, m. 1961), all'alpe del Crot, dove pernottiamo.


Val di Lei e lago Ballone

In caso di buona visibilità conviene però, al bivio di quota 2310 metri, seguire il sentiero C3, cioè quello di sinistra, più breve e più vario. In tal caso superate alcune roccette con tratto protetto a muretto a secco iniziamo un lungo traverso in graduale discesa verso nord-nord-est, su facili balze ed avvallamenti. Dopo una decina di minuti o poco più superiamo una valletta, a quota 2235, e procediamo nella traversata, sempre diritta, con tratti in piano e tratti in discesa. Superata, a quota 2100, una seconda valletta ci attende un ultimo tratto in discesa, prima che il sentiero C3 intercetti il marcato sentiero che scende dal versante meridionale della Val Caurga. Siamo sul largo dosso che delimita a sud la parte terminale di questa valle laterale. Pieghiamo a destra ed iniziamo una discesa più diretta verso est, con alcuni tornantini, fino a raggiungere la pista che segue il lato occidentale del Lago di Lei in corrispondenza delle baite dell'alpe Mulacetto (m. 1956).


La Val di Lei

Seguiamo ora la pista sterrata verso sinistra, iniziando la lunga e un po' monotona traversata verso nord che termina allo sbarramento della diga del Lago di Lei. Superiamo subito su un ponte il torrente della Val Caurga, e proseguiamo diritti verso nord-nord-est. Alle nostre spalle il pizzo Stella mostra un profilo curioso, a chiudere l'interminabile valle. La pista volge leggermente a sinistra e procede verso nord. Oltrepassiamo alla nostra sinistra il sentiero segnalato che sale all'alpe Palazzetto. A quota 1945 superiamo il ponte che scavalca il torrente che scende dalla Val Rebella. Dopo un secondo ponte, oltrepassiamo anche il sentiero segnalato che, alla nostra destra, sale all'alpe Rebella. La pista volge leggermente a destra (nord-nord-est) ed oltrepassiamo un terzo sentiero, alla nostra destra, quello che sale all'alpe Ganda Nera. Un tempo la Val di Lei era celebre per la ricchezza dei suoi alpeggi. La costruzione del lago artificiale e l'evoluzione dei tempi ne ha molto mutato la natura.


La diga della Val di Lei vista dal rifugio Baita del Capriolo

Dopo diversi chilometri ci approssimiamo infine al sospirato termine della pista: giungiamo infatti in vista del possente muraglione che sbarra il lato settentrionale del lago di Lei. Qui per breve tratto entriamo in territorio elvetico, perché il confine, che passa per la dorsale che delimita ad est la valle (quindi alla nostra destra), lascia bruscamente la cresta e procede diritto verso ovest per inglobare, appunto, lo sbarramento della diga, conformemente ad un accordo italo-elvetico che concesse alla Svizzera lo sfruttamento delle acque del lago di Lei, che pure è interamente in territorio italiano. L’imponente sbarramento (lungo 690 metri e alto 173) dell'enorme invaso (dalla capacità di 197 milioni di metri cubi d'acqua) che occupa il fondovalle è quindi in territorio svizzero, ed è stato realizzato fra il 1958 ed il 1961. Sul lato opposto giunge la strada che viene usata per salire fin qui in automobile.
Noi però non pieghiamo a destra per impegnare tale camminamento, ma procediamo diritti, imboccando la stradina che procede verso nord ed in breve ci riporta in territorio italiano. La seguiamo per un breve tratto, fino a raggiungere le baite dell'alpe Crot, presso le quali si trova il rifugio Baita del Capriolo (m. 1961), a gestione privata (è gestito da Valente del Curto, tel. 348 2260889; per info si può scrivere a valdilei@bluewin.ch; per prenotazioni si possono inviare fax al numero 004181/6671136). Qui termina la seconda (o la prima) giornata dell'anello del pizzo di Emet.


Il rifugio Baita del Capriolo

APPROFONDIMENTI

Luigi Brasca, nella monografia “ Le montagne di Val San Giacomo” (CAI di Torino, 1907) così descrive la salita al passo di Angeloga agli inizi del secolo XX: “Il passo di Angeloga (m. 2397) è valicato da una comoda mulattiera che collega Campodolcino con la Valle di Lei; si sale da Campodolcino a Fraciscio, pittoresco villaggio, che tra poco sarà unito al capoluogo da una carrozzabile, indi a Soste e pel fondo della Valle Rabbiosa, fino ad uno strano masso isolato a sinistra, che un bell’umore chiamò Testa di Garibaldi, dopo il quale la mulattiera si arrampica a zig zag (sono quasi cento risvolti!) per la costa del monte per 400 metri di dislivello, noiosa e faticosa salita; indi, procedendo quasi in piano, si è in breve alle alpi di Angeloga m. 2046, in riva al lago omonimo (m. 2029): ore 2 da Campodolcino. Da qui la mulattiera gita verso sud-est con lunga curva, indi ritorna verso nord, costeggiando un nevaio perenne, infila una specie di gola su per la parete (il Camino d’Angeloga) e giunge all’altezza di m. 2425, indi in breve discesa si è al passo, segnato da una croce. Ad ovest v’è il cupo e grande Lago Nero, col più piccolo Lago Caldera ed altri laghetti minori; ad est trovasi il Lago Ballone. È questa del Passo d’Angeloga una curiosa località alpestre. Per pascoli e prati si scende infine a Mulacetto e a Sant’Anna verso Inner Ferrera.”


Il lago di Angeloga

Per illustrare meglio le caratteristiche di questi luoghi, riportiamo infine le informazioni che ci vengono offerte dal bel volume "Laghi alpini di Valtellina e Valchiavenna", di Riccardo De Bernardi, Ivan Fassin, Rosario Mosello Rosario ed Enrico Pelucchi, edito dal CAI, sez. di Sondrio, nel 1993:
Nell'alto bacino del Torrente Rabbiosa, che si riversa nel Liro a Campodolcino, molto sopra l'abitato di Fraciscio, c'è un'area alpestre ricca di laghi, siti a quote diverse, ma sostanzialmente su due piani: quello dell'Alpe Angeloga (attorno ai 2000 m) e quello del Passo dell'Angeloga (attorno ai 2350 m). Il Lago di Angeloga è una
pozza rotonda di acqua verde che riflette i pascoli circostanti, un tempo assai importanti e floridi, un elemento ideale di una segantiniana «abbeverata».


Rifugio Chiavenna

Gli altri laghi stanno in tutt'altro ambiente, cioè su un alto scalino roccioso in un piccolo altipiano sopra il quale un ghiacciaietto sospeso, in epoche arcaiche, ha scavato le fosse in cui stanno i laghetti, ha accumulato le morene e i massi, ha modellato i dossoni di friabile roccia scistosa. Il Lago «Nero», certo dal colore prevalente delle acque, soggette però a quella quota e in un ambiente siffatto a mutevoli giochi di luce; il Lago Caldera forse così denominato dalla forma vagamente rotondeggiante e dall'essere affossato entro pendii più incombenti. Ma ve ne sono altri minori e, poco in là dal passo, già in Val di Lei, ancora altri molto piccoli e uno maggiore (Lago Ballone), in una continuazione del pianoro glaciale che costituisce oggi anche un punto di osservazione eccezionale sul sottostante lunghissimo lago artificiale che occupa il fondo della Val di Lei.
Si tratta, nel complesso, di un ambiente straordinario, anche per la presenza incombente del Groppera e la vista sul Pizzo Stella, per il colpo d'occhio su tutto l'anfiteatro sottostante, per la varietà dei microambienti fisici e biologici.
Certo il luogo non è di comodissimo accesso, sia che si salga da Fraciscio lungo la bella mulattiera che percorre la vallata, sia che si parta da Motta di Campodolcino, a una quota sensibilmente superiore, per poi affrontare lo scenografico sentiero che sale (e scende) lungo le pendici meridionali della Colmenetta e del Groppera, sotto gli spuntoni della suggestiva costa di Fortezza sempre con una vista meravigliosa sulle vallate sottostanti. Poi, una volta raggiunta l'Alpe Angeloga per l'una o per l'altra delle due vie, ancora non è finito il cammino, perché per raggiungere i laghi superiori si deve risalire una ripida costa-canale erbosa e percorrere una breve gola scavata nelle rocce dello spalto roccioso, subito a valle del Lago Nero. L'impressione, alla fine del viaggio, è di essere penetrati in uno spazio magico, inaccessibile, regno della luce e del vento.”


La Val di Lei ed il pizzo Stella (a destra)

Appendice I: la Val di Lei

Luigi Brasca, nella monografia “Le montagne di Val San Giacomo” (CAI di Torino, 1907) così descrive la Val di Lei agli inizi del XX secolo, cioè ben prima della costruzione della grande diga: “Strana valle questa, grande distesa di pascoli lunga forse 15 chilometri, col fondo quasi piano, dove scorre lentamente un ramo del Reno, colle scarse baite aggrappate miseramente a tratti; migliaia e migliaia di pecore, di capre, di bovini riuniti in greggi e mandrie irrequiete pascolano su pei fianchi dei monti, e, la sera, si addossano alle alpi, intorno ai focolari dei pascoli lombardi; e nell’oscurità tintinnano le campane squillanti in mille toni, che capre e pecore e giovenche portano al collo e che scuotono, ruminando. Appena varcato il ponte alla fine della vallata, cessa l’idioma lombardo, e compare il gutturale suono della lingua nordica o quello strano dell’antico romancio.”
Dall’incantevole e ben più recente volumetto di don Abramo Levi, “Spartiacque”, (L’Officina del Libro, Sondrio, 2004), raccogliamo queste preziose annotazioni sulla Val di Lei:
Per la verità il manoscritto parlava molto di Valpiana, ma quella Valpiana ormai non esisteva più. Era diventata. proprio quel che recitava il suo toponimo Valle di Lej ( e in romancio Lej significa lago). L'acqua sommergeva il fondo della valle e risaliva lungo le due pendici a ricoprire il territorio che aveva costituito il pascolo più sostanzioso per le vaccine.


Val di Lei e pizzo Stella (a destra)

Tutto quello che il manoscritto raccontava si riferiva alla valle prima dell'invaso, prima che il fiume Reno fosse stato fermato, imbrigliato dalla diga e costretto a tornare su se stesso. Quelli che avevano assistito al primo invaso avevano potuto osservare questa parodia di trasgressione geologica, per cui l'acqua rioccupava flaccida e sordida i rivi e i valloncelli dai quali era scesa limpida e garrula. Li rioccupava con movimento lentissimo, recessivo e trasgressivo a un tempo. Così dovevano essere le acque del diluvio quando salivano e salivano a sommergere ogni forma di vita, trasgressive verso chi era stato trasgressivo, uomini e animali. Chi si trovava là in valle quando l'acqua era penetrata nelle stalle, nei cascinali, negli stazzi, aveva visto ermellini, puzzole, e topi, soprattutto topi, uscire a frotte dalle loro sedi e cercar riparo sulle travi: avanti e indietro in cerca di un passaggio inesistente, e infine giù con un tonfo nell'acqua putrida, ad imputridirla ancora di più...
Uno degli alpeggi – e per la verità neanche il più grosso e attrezzato – si chiamava 'Palazzo', toponimo che non ha la pur minima corrispondenza con le abitazioni, ma ne ha invece con la storia, se si è bravi ad interrogarla. La Val di Lej infatti era in gran parte proprietà dei nobili Vertemate, i quali avevano a Piuro in val Bregaglia il loro palazzo favoloso e realissimo, come favolosa e realissima era stata la frana che nel 1618 aveva sepolto il lussuoso borgo. C'è dunque un aggancio fra questo toponimo della Val di Lej e la storia di Piuro.
Ma come era iniziata questa storia? Piuro fu ab antiquo un borgo illustre, voglioso di competere con Chiavenna. Si sa di una fiera lite tra i due borghi, quando Piuro avanzò la pretesa al titolo di arcipretura, cioè di chiesa plebana, con proprio Capitolo. Cosa significasse un 'Capitolo' lo si può dedurre dal fatto che il Capitolo, cioè il gruppo dei canonici di Chiavenna, aveva il diritto di 'decima' sui prodotti dell'alpe Angeloga. E questo sin dal '300. Il nuovissimo Capitolo di Piuro ebbe fra le sue fonti di sostentamento alcuni alpeggi della Val di Lej, di fresco riscattati dalla dominazione dei conti di Sargans. Non si deve pensare,  per questo, che i preti e gli arcipreti fossero delle sanguisughe. Alle loro spalle ribollivano le irrequietezze, l'orgoglio, i campanilismi di popolazioni che lottavano, quali per la parità, quali per l'egemonia.
Fu dunque un segno di intraprendenza da parte della gente di Piuro l'aver esplorato la Valle che dal valico scende verso la Svizzera, l'averla disboscata e resa pascoliva. Infine gli svizzeri si accorsero di quanto la valle era mutata, e avanzarono pretese di possesso sotto forma di enfiteusi, appartenendo il territorio al bacino orografico svizzero.
Fu dall'enfiteusi che il Capitolo di Piuro si liberò, con atto notarile che porta la data del 16 luglio 1461. Se si guarda una cartina geografica un po' dettagliata, si può constatare come la proprietà del Capitolo di Piuro in valle di Lej confina, su al valico, con la proprietà del Capitolo di Chiavenna in Angeloga.

 

Appendice II: la leggenda della Val di Lei

Esiste, in Valchiavenna, una valle dal nome singolare, la valle di Lei, la cui denominazione allude ad una figura femminile (o parrebbe alludere: in realtà il toponimo significa "lago"). Sull’identità di questa figura, però, le spiegazioni divergono.
Una prima storia rimanda ad uno sfondo storico assai lontano nel tempo, cioè all’epoca della dominazione romana della Rezia. Ne è infelice protagonista la moglie di un soldato romano, un centurione di stanza in val Ferrera, attualmente in territorio svizzero. Costei tradì il marito, che non la prese affatto bene e le inflisse una punizione terribile: la rinchiuse in una caverna e la lasciò morire lì.
Passarono circa mille anni, prima che alcuni pastori di Piuro (i pascoli della valle di Lei, assai pregiati, sono, infatti, nel territorio di tale comune) rinvenissero quel che restava della sventurata, sopra l’alpe del Scengio. Come abbiano fatto a ricostruire la vicenda che aveva portato alla tragica fine, non ci è dato sapere: la scoperta, però, suscitò tale impressione e mosse gli animi a tali sentimenti di pietà, che la valle, da allora, assunse il nome che doveva ricordare lei, la donna che trovò nel cuore dei suoi monti la propria tomba.
Da allora quando il vento sibila e pare produrre gemiti lamentosi, i pastori dicono che è l'anima di "lei", un'anima in pena, che piange per il suo tradimento e la sua terribile sorte (cfr. Martino Fattarelli, "Intese e discordie lungo i millenari confini del chiavennasco", in "Clavenna", n. 14, del 1975, e E. Simonetti-Giovanoni, "Almanacco dei Grigioni Italiani", Poschiavo, 1975, pp. 97-98).
Esistono, però, almeno un paio di altre leggende, che ci portano a scenari decisamente più fantastici, anche se non meno tragici (cfr. “C'era un volta, Vecchie storie e leggende di Valtellina e Valchiavenna”, ed. a cura del Comune di Prata Camportaccio, Sondrio, Bonazzi Grafica, dicembre 1994).
La prima ci presenta un tempo in cui la valle godeva di un clima particolarmente favorevole e caldo, ed era quindi particolarmente prospera. Vi dimorava allora una principessa, che possedeva consistenti ricchezze. Purtroppo le situazioni felici, anche nel mondo fantastico delle leggende, non sono mai durature, ed ecco, quindi, entrare in scena un perfido mago, che le intimò di consegnarle tutto l'oro. Inizialmente la principessa resistette alla sua prepotenza, ma quando questi minacciò di congelare la sua bella valle, fu presa dalla paura e cedette.
Aver donato tutto il suo oro, però, non le valse a nulla, perché il mago si fece avanti ancora, con pretese maggiori: questa volta voleva l'intera valle. Questa volta la principessa rispose che non avrebbe mai acconsentito a cedere la sua bella valle. Questo rifiuto segnò il suo destino, perché il mago la uccise. Era tanto malvagio, che neppure volle godersi la valle conquistata con il sopruso, preferendo godersi il gusto di un atto di malvagità gratuita: usò, infatti, le sue arti magiche per stendervi sopra una coltre di ghiaccio. Da allora, in memoria della sua ultima sventurata principessa, la valle assunse l'attuale denominazione.
Una seconda leggenda spiega il nome con una vicenda per certi versi analoga. Questa volta la protagonista è una ragazza di grande bellezza, che abitava sul versante montuoso che scende ad oriente del pizzo Groppera, la vetta che segna il confine sud-occidentale della valle. La sua bellezza non sfuggì ad un malvagio stregone, che passò un giorno nella valle, e che le chiese di sposarlo. La ragazza oppose un netto rifiuto, anche perché, come tutti gli esseri malvagi nell'universo delle leggende, costui era davvero brutto. Brutto e vendicativo: non ci pensò su due volte, e trasformò la ragazza in una grande massa di ghiaccio, in un vero e proprio ghiacciaio. Anche in questo caso alla sventurata venne tributato l'omaggio del ricordo nel nome della valle.
Una terza ed ultima leggenda è riportata nella bella raccolta “C'era un volta, Vecchie storie e leggende di Valtellina e Valchiavenna”, ed. a cura del Comune di Prata Camportaccio, Sondrio, Bonazzi Grafica, dicembre 1994, con contributi di diverse scuole della Provincia di Sondrio (quello riportato è della Scuola Media Bertacchi di Chiavenna):
"Un tempo si diceva che i "malspirit", cioè gli spiriti maligni, erano stati confinati nel posto più tetro della Val di Lej. Qui essi si divertivano a tendere scherzi e tranelli alle persone di passaggio. Il mio bisnonno quasi quasi cascò in uno di questi tranelli. Un giorno infatti giunse alla bocchetta che porta alla Val di Lej quando, improvvisamente, su un burrone, vide una scure conficcata nella roccia. Lui però non la prese, anche se all'inizio gli era venuta la tentazione di farlo per portarla a suo figlio. Si ricordò per fortuna che gli avevano detto che i "malspirit" lasciavano delle scuri in posti pericolosi come quello, per far sì che chiunque tentasse di prenderle, cadesse nel burrone."
Le prime due leggende prendono spunto dalla presenza, nella valle, di ghiacciai, in particolare di quello della Ponciagna, che occupa il vallone dello Stella, il quale, a sua volta, scende dal versante settentrionale del pizzo Stella (m. 3163), ed il ghiacciaio della cima di Lago (m. 3083), che presidia l'angolo di sud-est della valle. Le diverse leggende fiorite sull'origine del suo nome testimoniano della singolarità della valle, che, idrograficamente appartiene al territorio elvetico, essendo tributaria del bacino del Reno, mentre politicamente appartiene all'Italia. Un accordo italo-svizzero, però, ha riservato alla Svizzera il diritto di sfruttamento idroelettrico delle acque della valle. Lo sbarramento dell'enorme invaso (dalla capacità di 197 milioni di metri cubi d'acqua) che occupa il fondovalle, infatti, è in territorio svizzero, ed è stato realizzato fra il 1958 ed il 1961. La valle, orientata a nord, è chiusa, ad oriente, dalla costiera che dallo Schahorn (m. 2836) scende alla cima di Lago (m. 3083) e ad occidente da quella che dal pizzo Motta (m. 2835) scende ai pizzi Groppera (m. 2948) e Stella (m. 3136).

 

Appendice III: la battaglia dell'Angeloga

La profonda quiete bucolica della piana di Angeloga suggerisce stati d’animo improntati alla serena meditazione, ispira un senso di pace che sembra tanto spesso legato alla natura ed ai suoi spettacoli. Senso di pace che, però, in una lontana mattinata di oltre sessant’anni fa, e precisamente nell’aprile del 1945, venne turbata da un fatto d’armi, passato alla storia come battaglia di Angeloga, che si inscrive fra gli ultimi atti della tragica lotta fra partigiani e repubblichini durante la seconda guerra mondiale.
Per capirne gli antefatti bisogna considerare il contesto di quell’aprile che si sarebbe concluso con la liberazione dell’Italia settentrionale dal regime nazifascista espresso dalla Repubblica di Salò. Alessandro Pavolini, segretario del Partito Fascista Repubblicano, aveva elaborato un piano di resistenza estrema contro l’avanzata degli Alleati. Tale piano prevedeva la costituzione di un Ridotto Alpino Repubblicano proprio in Valtellina e Valchiavenna, dove avrebbero dovuto asserragliarsi le residue forze fasciste e naziste in attesa di una ormai improbabile svolta clamorosa della guerra legata alle misteriose armi in allestimento in Germania. Di fatto tale progetto, che prevedeva opere di fortificazione, non venne attuato, nonostante i preparativi dello stesso Pavolini, che venne a Sondrio il 5 aprile, ma determinò un movimento di truppe che fu all’origine di diversi scontri con i partigiani, fra i quali, appunto, la battaglia citata.
Affluirono, infatti, in Valtellina e Valchiavenna numerose truppe delle Brigate Nere, cui si affiancavano truppe tedesche, e vennero pianificate azioni di rastrellamento finalizzate a ripulire della presenza partigiana la Valchiavenna e la Bassa Valtellina. Il fine non era solo quello resistenza ad oltranza: il controllo di queste zone avrebbe, infatti, anche consentito, attraverso il passo dello Spluga o la Val Bregaglia, una fuga in Svizzera dei maggiori esponenti del regime repubblichino, per sfuggire alla cattura in caso di disfatta. I partigiani controllavano l’intera Valle di S. Giacomo: loro obiettivo era, in particolare, quello di tener liberi dalla presenza nazifascista la Val di Lei ed il Pian dei Cavalli, luoghi idonei per un lancio paracadutato di armi, promesso dagli Alleati, nell’ottica dell’offensiva finale contro la Repubblica di Salò. La Val di Lei assunse, dunque, in quelle settimane una rilevanza strategica, e siccome il più agevole accesso alla valle era (ed è) il passo dell’Angeloga, per impedirne l’occupazione venne stanziato, nel rifugio C.A.I. Chiavenna all’alpe Angeloga, un presidio composto da una ventina di partigiani.
Il temuto rastrellamento partì, con ingenti forze (500 fascisti e 200 tedeschi circa), all’alba del 19 aprile, lungo tre direttrici, Savogno, la Val d’Avero ed il fondovalle. Dal 21 al 23 aprile Campodolcino, Medesimo e Montespluga vennero occupati dalle forze nazifasciste, che si erano così aperte il passaggio per la Svizzera (anche se il passo dello Spluga, ancora innevato, non era transitabile con mezzi meccanici). Era invece fallito il tentativo di passare in Val di Lei dal passo di Lei, a monte del lago dell’Acquafraggia.
Ecco, allora, il tentativo di passare per l’Angeloga, operato da una compagnia speciale della Milizia di Dongo, composta da oltre 100 uomini, che da Medesimo risalì le pendici del pizzo Groppera, sorprendendo, nella nebbiosa mattina del 26 aprile, il presidio partigiano dell’Angeloga. Un intenso fuoco di mitragliatrici, sostenuto anche da una mitragliera e da un mortaio da 81, costrinse i 20 partigiani a ripiegare 
Il racconto di questo tragico ripiegamento può essere affidato alle parole di un partigiano superstite, Guido Carnazza (Mosquito): Nicolin alla mia destra sparava e rideva, S’ciopp alla mia sinistra sparava e imprecava perché non si dava pace per aver lasciato in capanna uno zaino contenente una mezza forma di formaggio, che rappresentava la scorta di viveri segreta e di estrema emergenza. “Vado a prenderlo”, disse rabbiosamente. Gli urlai che era una follia, ma Sciopp schizzò ugualmente in basso verso la capanna. Sparavo, sparavo, ed il tempo non passava mai. Ad una decina di metri, sulla mia sinistra, in basso, ricomparve S’ciopp, che arrancava per il grosso peso sulle spalle. “Non ne posso più” gridò stremato dalla fatica. “Getta quello zaino” gli urlai. Pochi secondi dopo cadeva colpito da una raffica nemica. (Da un articolo di Guido Carnazza citato in “Antifascismo e resistenza in Valchiavenna, 1922-1945”, di Renato Cipriani, pubblicato dall’Officina del Libro di Sondrio nel 1999). Il ripiegamento partigiano, complice la nebbia, riuscì, a prezzo, però, di due morti (i sopra citati S’ciopp e Nicolin) e di numerosi feriti; i partigiani superstiti varcarono il passo dell’Angeloga e si attestarono in Val di Lei. I miliziani, invece, incendiarono il rifugio e le baite dell’alpe Angeloga, tornando alla sera a Medesimo. Milano era già stata liberata il giorno prima. Chiavenna venne liberata il giorno dopo.

CARTE DEL PERCORSO sulla base della Swisstopo (CNS), che ne detiene il Copyright. Ho aggiunto alla carta alcuni toponimi ed una traccia rossa continua (carrozzabili, piste) o puntinata (mulattiere, sentieri). Anche le carte sopra riportate sono estratti della CNS. Apri qui la carta on-line

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