Alta Val Vicima e pizzo del Gerlo

Questa escursione potrà suscitare notevole interesse in tutti coloro che amano gli itinerari poco conosciuti e battuti, in scenari solitari e di grande fascino. Potrebbe essere chiamata “anello del Gerlo” perché il percorso, che ha come punto di partenza e di arrivo la strada che da Campo Tartano conduce a Tartano, in Val di Tartano, disegna un anello intorno al pizzo Gerlo (m. 2470), la seconda elevazione, dopo il pizzo Torrenzuolo (m. 2380), sulla costiera orientale della Val Lunga, uno dei due rami in cui si divide la Val di Tartano. Ma la potremmo chiamare "anello degli umèt", perché questi muti guardiani del silenzio, posti quasi sul crinale fra le opere dell'umano ed i misteri del naturale e del sovrannaturale, fanno da suggestivo contrappunto alla flebile scansione dei nostri passi.
L’escursione parte da Campo Tartano e si sviluppa, nella prima parte, in Val Vicìma, laterale orientale della Val di Tartano (che però appartiene al comune di Forcola), passando quindi nell’alta Valle di Bernasca, laterale occidentale della Val Madre (comune di Fusine), per rientrare in Val Tartano (comune di Tartano) ed effettuare una bella traversata degli alpeggi sul versante orientale della valle (Gerlo, Torrenzuolo, Baghet), per ridiscendere, infine, a Campo Tartano. La discesa all’alpe del Gerlo, il primo degli alpeggi toccati nella seconda parte dell’escursione, avviene attraverso la bocchetta del Gerlo ed un canalino ripido ed un po’ ostico, per cui richiede attenzione ed esperienza, oltre che condizioni ambientali adeguate (cioè terreno asciutto ed assenza di neve o ghiaccio). L’escursione, infine, imponendo il superamento di circa 1300 metri di dislivello, richiede un buon allenamento.
Non possiamo, però, raccontare l’escursione senza prima aver presentato gli elementi di base per capire cos’è e come funziona un alpeggio. Ci aiuta Dario Benetti, nell’articolo “I pascoli e gli insediamenti d’alta quota” (in “Sondrio e il suo territorio”, edito da IntesaBci nel 2001), nel quale descrive la struttura e l’organizzazione tipica degli alpeggi orobici nell’area del Bitto (dalla Val Lesina, ad ovest, alla valle del Livrio, ad est): “Gli alpeggi di questa zona, anche quelli comunali, erano prevalentemente dati in affitto a comunità di pastori. A tale tipo di gestione corrisponde una struttura architettonica ben precisa: il pascolo d’alpeggio è suddiviso in bàrech, un reticolo di muretti a secco, più o meno regolare, che delimita “il pasto” di una giornata di malga. Questa suddivisione permette di sfruttare razionalmente il pascolo. Il pascolo non è infatti ricco e, se il bestiame fosse lasciato libero, finirebbe con l’esaurirsi anzitempo. In ogni alpeggio il bestiame si sposta dunque quotidianamente da un bàrech all’altro, restando prevalentemente all’aperto (in pochi alpeggi sono previsti stalloni – baitùu – o tettoie aperte per il ricovero notturno o in caso di brutto tempo). Numerose baite sono collocate sull’alpeggio in corrispondenza dei principali spostamenti. Al centro dell’alpeggio c’è la caséra, la costruzione dove si depositano i formaggi e le ricotte per la salatura e la conservazione temporanea… La necessità di sorvegliare il bestiame durante il pascolo di notte, lontano dalla baita dei pastori, era risolta con una particolare forma di ricovero temporaneo, il bàit. Si tratta di un rifugio trasportabile in legno con copertura inclinata rivestita, negli esempi più recenti, in uso fino a qualche anno or sono, in lamiera. Il bàit era diffuso in val Tartano e nelle valli del Bitto e del Lesina; a volte era a due posti. Nella parete laterale è ricavata una apertura trapezoidale per l’accesso con sportellino in legno, mentre in testata sono ricavati due fori per l’aria e per infilarvi due lunghi bastoni per il trasporto a spalla da una sede all’altra. Caratteristico delle valli del Bitto e Lesina, ma presente in passato anche in val Tartano, è il caléc. Esso era utilizzato nel caso in cui la permanenza dei pastori in una certa parte dell’alpeggio superava i 5-6 giorni. Questa struttura consiste essenzialmente nei quattro muri perimetrali e in una apertura a valle per l’accesso. La copertura veniva realizzata di volta in volta con elementi provvisori, per esempio una struttura in legno e un telo. La distribuzione interna degli spazi è simile a quella della baita in muratura, con il paiér (il focolare), il supporto girevole in legno per la culdèra e un ripiano sul quale si poggiavano i formaggi ad asciugare. In alcuni alpeggi, infine, è presente il baituu, una grande stalla per il ricovero delle mucche in caso di maltempo. Si tratta di una costruzione molto allungata (20-30 metri) a un solo piano, con muratura in pietrame a secco e tetto a due falde con manto di copertura in piode selvatiche (se il fronte verso valle è aperto la costruzione prende il nome di tecia)… I baituu ospitavano fino a 90 capi di bestiame. All’interno, in un soppalco ricavato nelle capriate del tetto alloggiavano due pastori.


Apri qui una fotomappa della parte terminale della Val Tartano e della Val Vicima

ANELLO VAL VICIMA-VAL TARTANO

Punti di partenza ed arrivo
Tempo necessario
Dislivello in altezza
in m.
Difficoltà (T=turistica, E=escursionistica, EE=per escursionisti esperti)
Campo Tartano-Valle e passo di Vicima-Bocchetta- Alpi Gerlo e Torrenzuolo-Barghet-Val Vicima-Campo Tartano
7 h
1300
EE
SINTESI. Saliti a Campo Tartano sulla strada per la Val Tartano, parcheggiamo qui e proseguiamo lungo la carozzabile per Tartano, trovando ben presto, segnalata, la partenza, sul suo lato sinistro, della mulattiera per la Val Vicima, che passa a monte della frazione Ronco e, raggiunto un poggiolo, comincia a inoltrarsi sul fianco meridionale della valle, passando per una cappelletta. Oltrepassate le baite di Vicima (m. 1505), guadiamo un piccolo coso d'acqua da sinistra a destra e passiamo a sinistra dei prati delle baite di quota 1619. Ignorata la deviazione a destra per il Barghèt, proseguiamo a sinistra e passiamo accanto ad un terzo gruppo di baite ai margini di una pecceta. Usciamo poi all'aperto passando a destra delle baite di quota 1763, scendiamo verso destra ad attraversare il torrente Vicima e saliamo fra facili balze fino all'alpe Vicima (m. 1933). Pasiamo a sinistra del recinto dell'alpe e proseguiamo diritti, fino a ritrovare la traccia di sentiero. Oltrepassata l'ultima baita a quota 2050, seguiamo il sentierino che, sempre stando sul lato sinistro per ni) della valle supera due gradini rocciosi e si porta ai piedi del passo di Vicima, cui sale con traccia più marcata (m. 2234, croce in legno). Lasciamo ora il sentiero principale che scende alla conca del lago di Bernasca e seguiamo una debole traccia che sale alla nostra destra (sud), passando così alti sul lago che vediamo alla nostra sinistra. La traccia del sentiero è intermittente, e non ci sono segnavia che ci possano aiutare, ma riconosciamo facilmente, davanti a noi, la meta da raggiungere: si tratta, infatti, del più profondo intaglio sulla costiera che separa l’alta Valle di Bernesca dalla Val Lunga, una bocchettina raggiunta da un lembo di pascolo (m. 2380). Sul lato opposto si apre un ripino canalino, che scendiamo con molta attenzione, stando nel primo tratto al centro, poi appoggiandoci sul fianco destro, fino a raggiungere la parte alta dell'alpe del Gerlo. Scendendo verso sinistra ci portiamo alla baita Matarone (m. 2215), a valle della quale, lungo un basso muro di cinta, sono posti tre grandi ometti. Scendiamo poi diritti alla baita della Moia (m. 2009) e proseguiamo incontrando alcune baite minori, in direzione della meta, che resta ancora nascosta dietro un ampio dosso erboso. Si tratta della curiosa doppia fila di tre baite che sulla carta è designata come Casera di Gerlo, e quotata 1897 metri: la raggiungiamo piegando leggermente a destra. Qui giunti, ignoriamo il sentiero che scende al fondovalle verso sinistra e prendiamo a destra, cioè in direzione nord, attraversando subito il torrentello del Gerlo, in un punto leggermente più a valle rispetto alla quota delle baite. Il sentiero, con traccia sempre chiara, attraversato un secondo e minore corso d’acqua, effettua, poi, una traversata verso l’alpe Torrenzuolo. Usciti dal bosco e superato il cartello che indica la partenza del sentiero per l’alpe Gerlo (lo stesso sentiero che abbiamo percorso in senso inverso), scendiamo alle baite dell’alpe Torrenzuolo, dove si trova anche l'agriturismo omonimo, a quota 1794. Invece di scendere verso sinistra, iniziamo una breve salita in direzione opposta, cioè verso est, attraversando, appena possibile, un primo torrentello e passando a valle rispetto ai prati ed alle baite che si trovano sul versante opposto dell’alpe Torrenzuolo. Il sentiero, anch’esso con traccia chiara e corredato da qualche segnavia rosso-bianco-rosso, attraversa, poi, il solco della Val del Castino, e prosegue, in direzione nord-ovest, dopo un breve strappo, in un bellissimo bosco di larici, interrotto da un’ampia radura nella quale troviamo una baita solitaria. Lla traccia non è chiarissima: la radura va attraversata rimanendo a valle della baita, in diagonale. Un segnavia ci permette di individuare il punto nel quale il sentiero rientra nel bosco e scende all’alpe del Barghetto (barghèt), al cui limite superiore ci affacciamo, uscendo dal bosco. Scendiamo lungo i ripidi prati, verso le baite, raggruppate in due nuclei (m. 1627). Raggiunto il nucleo più basso, sul limite inferiore dei prati, prendiamo a sinistra, intercettando il sentiero che sale all’alpe direttamente dalla strada Campo-Tartano. Senza scendere per questo sentiero, prendiamo, ora, a destra, imboccando il sentiero, segnalato da segnavia rosso-bianco-rossi, che taglia il boscoso ed ombroso fianco meridionale della Val Vicima, in direzione est-sud-est. Una breve traversata ci condurrà al torrente Vicima, attraversato il quale dovremo effettuare una breve risalita lungo una fascia di bassa vegetazione, che in parte nasconde la traccia del sentiero, fino ad intercettare la mulattiera della Val Vicima, che abbiamo già percorso per salire in valle.

Ciò premesso, vediamo come procedere nell'escursione. Innanzitutto bisogna salire in Val di Tartano, e per farlo ci si deve staccare dalla ss. 38, dopo il viadotto sul torrente Tartano e prima di quello sul fiume Adda nel tratto fra Talamona ed Ardenno(per viaggi in direzione di Sondrio). Ci si immette, così, sulla strada provinciale Pedemontana Orobica, che si lascia, però, ben presto, deviando a destra, per imboccare la strada, segnalata, per la Val di Tartano. La strada, costruita negli anni Cinquanta del ‘900, si snoda sull’aspro fianco occidentale del Crap del Mezzodì (m. 1031), inanellando 12 tornanti prima di raggiungere Campo Tartano (m. 1049). Procedendo per circa mezzo chilometro oltre Campo, in direzione di Tartano, troviamo una piazzola a lato della strada, sulla destra, con un tavolo per la sosta.
Pochi metri oltre parte, sulla sinistra, il sentiero per la Val Vicima. Parcheggiata l'automobile, ci mettiamo in cammino. Dal primo tratto del sentiero si domina la bassa Val di Tartano, con Campo Tartano, mentre sul versante opposto della valle si vedono le case di Postareccio. Si può intercettare la mulattiera, nei pressi di una cappelletta, anche salendo per un ripido e breve sentierino che parte dalle case della frazione Ronco, dove si trova anche un parcheggio dove si può lasciare l’automobile. La salita avviene su una bella mulattiera, che regala alcuni suggestivi colpi d’occhio su Campo Tartano, prima di condurre al crinale di un dosso, dove una piccola radura permette una piacevole sosta, rallegrata dal dolce profilo delle betulle. Dal dosso lo sguardo raggiunge, sul fondo della Val Lunga, il passo di Tartano, sormontato da una grande croce.
Il sentiero si inoltra, quindi, sul fianco settentrionale della valle e raggiunge una cappelletta che sembra posta a guardia del pauroso dirupo che si apre, alla nostra destra, sul fondovalle. Il sentiero, infatti, è largo, comodo ed in questo tratto quasi pianeggiante, ma esposto su questo dirupo: da qui scorgiamo anche l’audace ponte di Vicima, che, sulla strada che porta a Tartano, supera la selvaggia forra della bassa Val Vicima. Sul lato opposto, cioè a monte, possiamo osservare, invece, la più rassicurante presenza di un bel bosco di abeti e faggi. Riprendiamo la salita: ben presto si raggiungono le baite di Vicima (m 1505), a monte dei ripidi prati che la sapienza contadina ha saputo sfruttare da tempi immemorabili. Continuiamo, fino ad un secondo gruppo di baite (m. 1619), che raggiungiamo dopo aver superato un piccolo corso d’acqua ed aver attraversato una fascia di bassa vegetazione, dove ignoriamo una deviazione che si stacca dal sentiero sulla nostra destra, scende al torrente della valle e si porta sul suo lato opposto, per raggiungere l’alpeggio del Barghèt: potremo utilizzare questo itinerario al ritorno.
Usciamo, quindi, definitivamente allo scoperto e nella salita successiva incontriamo una fascia di bassa vegetazione, costituita soprattutto dagli ontani verdi (una presenza spesso temuta dall’escursionista, in quanto nasconde, in molti casi, la traccia di sentiero: non però, in questo caso). Ci stiamo affacciando all’alta valle, e troviamo, sulla nostra sinistra, a quota 1763, un primo gruppo di baite, prima di scendere sulla destra ad attraversare il torrente e, superata un’ultima balza, giungere in vista dell’ampio pianoro terminale dell’alpe di Vicima, dove, a 1933, troviamo la baita utilizzata dai caricatori dell’alpe.


Apri qui una fotomappa della Val Vicima

Una riflessione sul toponimo non guasta, data la sua curiosa diffusione: troviamo, infatti, una Val Vicima anche in Val Fontana, sopra Chiuro (si tratta della prima laterale occidentale) ed in Val Masino (si tratta di una laterale minore sul fianco occidentale della Valle di Preda Rossa). Esso deriva, probabilmente, dall'espressione latina che significa "cima del vico", cioè luogo a monte di un villaggio.
Di nuovo in cammino, ora. Tenendo la sinistra (per noi) della valle senza però guadagnare quota, aggiriamo il recinto che delimita lo spazio riservato agli animali e percorriamo a vista il pianoro: manca, infatti, una vera e propria traccia di sentiero. Superata un’ultima baita, risaliamo il fianco del gradino roccioso che ci separa dallo strappo finale. Siamo sempre sul lato sinistro della valle, spostati verso il centro, quando affrontiamo il sentiero ben marcato che, con qualche stretta serpentina, conduce infine al passo di Vicima (m 2234), riconoscibile anche da lontano per il grande ometto e la croce che lo sormontano.
Questo itinerario, come già detto, potrebbe essere chiamato l’anello degli ometti, dal momento che ne incontriamo diversi, e di ragguardevoli proporzioni, lungo il percorso. Alcuni sono posti in corrispondenza di luoghi importanti, un passo, un dosso, e quindi hanno la funzione di permettere l’orientamento in condizioni di scarsa visibilità. Ma in altri casi, come in quello degli ometti dell’alpe del Gerlo, che incontreremo nella seconda parte dell’escursione, la loro funzionalità appare assai meno chiara, e forse deve essere legata a qualche motivo simbolico-rituale che ci sfugge interamente. Quel che è certo è che questi manufatti, che risalgono ad epoche antichissime, rimangono come muti testimoni di una civiltà di cui ben poco sappiamo e la cui suggestione, proprio per questo, accompagna, come un’ombra enigmatica ed inquietante, i nostri passi nel cammino.


Apri qui una fotomappa del passo di Vicima

Ma lasciamo, al riguardo, di nuovo la parola a Dario Benetti (op. cit.), che offre considerazioni interessanti proprio in riferimento agli ometti di Val Tartano: “Nel complesso rapporto vissuto dalla società tradizionale con il proprio territorio alla ricerca di un orientamento e di un ordinamento rientra anche, naturalmente, l’area degli alpeggi. Il profondo senso religioso dei contadini pastori si è espresso in varie modalità lasciando molti segni. Tra questi i più misteriosi e, nel contempo, emblematici, sono sicuramente i cosiddetti umèt… Ancora oggi oggi visitando la zona degli alti pascoli si resta colpiti dalla presenza, in genere sulle creste intervallive o, comunque, in punti ben visibili, di pilastri isolati in pietra a secco di circa un metro e mezzo di altezza… Gli umèt spuntano all’improvviso durante il cammino, come antichi guardiani dello spazio abitato, segnando i confini e i riferimenti tra un alpeggio e l’altro”.
Oltre il passo di Vicima, lasciamo il territorio di Forcola per calcare quello di Fusine, e troviamo subito, sulla destra, una traccia di sentiero e permette di tornare in Val di Tartano, scendendo all’alpe del Gerlo: è questo l’itinerario da seguire, ma prima, con un breve fuori-programma, proseguiamo scendendo per un breve tratto alla conca sottostante, fino ad affacciarci su un pianoro più ampio, dove, inatteso, ci appare il bellissimo laghetto di Bernasca (m 2134), dominato, sulla destra, dalla mole del monte Seleron. Torniamo, quindi, nei pressi del passo, per sfruttare la traccia di sentiero che sale, in direzione sud (destra), verso il circo terminale dell’alta Val Bernasca, compreso fra il monte Seleron (m. 2519), a sud-est ed il pizzo Gerlo (m. 2470) a nord-ovest, passando, nel primo tratto, proprio a monte del laghetto di Bernasca. Il luogo, disseminato di formazioni rocciose tondeggianti, suscita un profondissimo senso di selvaggia ed arcana solitudine, e la presenza dell’escursionista sembra quasi violare uno spazio sottratto all’uomo e riservato a capre, aquile e marmotte.
La traccia del sentiero è intermittente, e non ci sono segnavia che ci possano aiutare, ma riconosciamo facilmente, davanti a noi, la meta da raggiungere: si tratta, infatti, del più profondo intaglio sulla costiera che separa l’alta Valle di Bernesca dalla Val Lunga, una bocchettina raggiunta da un lembo di pascolo. La raggiungiamo senza particolari difficoltà, ad una quota approssimativa di 2380 metri. Ben più difficoltosa ci appare subito, invece, la discesa all’alta alpe del Gerlo.
Ecco come la guida Mario Vannuccini, nella “Guida al Parco Regionale delle Orobie Valtellinesi”, la descrive: “Il versante opposto, raggiunto da un canalino di scivolosa festuca varia (l’erba vìsega dei valtellinesi, chiamata cèra in Val Tartano) all’inizio spaventa un po’. Ma con la dovuta cautela la discesa si dimostra meno difficile del previsto. Si abbandona la seconda metà del canale per proseguire sulla sua sponda destra fino al termine delle difficoltà, presso l’Alpe Matarone (2215 m)”. E’ proprio il passaggio dal centro del canalino al suo erboso lato destro a rappresentare il punto più esposto, e quindi quello che richiede la maggiore attenzione. La tentazione sarebbe quella di proseguire infilandosi nell’ultima parte del canalino, ma anche qui si incontrerebbero difficoltà: un passaggio un po’ ostico ed il rischio costante, se si è in più di uno, di far rotolare sassi su coloro che stanno più in basso. Raggiunti i pascoli alti, proseguiamo in direzione della baita Matarone (m. 2215), a valle della quale, lungo un basso muro di cinta, si impongono alla vista tre misteriosi grandi ometti.
Sulla nostra sinistra alcuni sentieri salgono sul crinale del dosso che separa l’alta alpe del Gerlo (dove ci troviamo) dall’alpe che si trova a sud-est, sempre sul versante orientale della Val Lunga, l’alpe Canale. Salendo al crinale, possiamo poi scendere sul lato opposto, all’alta alpe Canale e proseguire verso sinistra, su traccia di sentiero che si perde, risalendo un ampio canalone che ci porta ad una sella erbosa quotata 2410, immediatamente a sud del monte Seleron: si tratta di una bocchetta, senza nome, che dà accesso, sul versante opposto, all’alta Val Cògola, laterale occidentale della Val Madre.


Apri qui una fotomappa della traversata dal passo di Vicima alla bocchetta del Gerlo

Ma torniamo alla baita Matarone: inizia da qui, su traccia di sentiero piuttosto labile, la discesa dell’alpe, davvero molto ampia. La discesa mantiene una direzione che approssimativamente rimane sulla verticale della baita Mafarone, senza piegare verso destra, dove è ben visibile la grande baita della Moia (m. 2009). Scendendo, incontriamo alcune baite minori, ma vediamo subito la meta, che resta nascosta dietro un ampio dosso erboso. Si tratta della curiosa doppia fila di tre baite che sulla carta è designata come Casera di Gerlo, e quotata 1897 metri.
Una sosta al cuore di questo vasto e suggestivo alpeggio ci permette di riflettere su questi luoghi così essenziali nell'economia contadina del passato. Sugli alpeggi, infatti, negli ottanta e più giorni di caricamento dell’alpe,  ferveva la vita di una piccola comunità, con una precisa organizzazione e gerarchia. Cediamo, per la terza volta, la parola a Dario Benetti (op. cit.): “Nel caso della val Tartano il cap è la massima autorità e in genere corrispondeva al caricatore dell'alpeggio; al cap spettano le principali decisioni strategiche. dallo spostamento da una baita all'altra, alla dislocazione dei pastori nell'alpeggio; subito dopo il cap c'è il casèr (il casaro), l'esperto che coordina le fasi di lavorazione dei prodotti caseari. Altre figure della comunità sono il cassinèr (che assiste il casaro), il caurèr (il capraio) e il manzulèr (incaricato di accudire alle manze quando pascolano separate dalle mucche), il pegurèr (il pecoraio). In fondo alla scala gerarchica, all'ultimo gradino, c'è la figura del cascìi (il pastorello). Quest'ultima figura merita un cenno particolare perché costituiva una specie di iniziazione per tutti i ragazzi della valle che entravano così nel mondo degli adulti e del lavoro, trascorrendo lontano dalla famiglia il periodo estivo.


Apri qui una fotomappa della discesa dalla bocchetta del Gerlo alla Casera del Gerlo

Le baite sono poste sul limite inferiore dell’alpe, e da esse si può scendere al fondo della Val Lunga imboccando un sentiero che prosegue sulla sinistra, passa a destra di un ripido prato ed inizia una discesa lungo il fianco di sud-est della valle del Gerlo, per poi passare sul lato opposto prima di raggiungere la strada di fondovalle presso una galleria paramassi.
Noi, invece, dobbiamo seguire un sentiero diverso, quello che dalle sei baite del Gerlo prosegue verso destra, cioè in direzione nord, attraversando subito il torrentello del Gerlo, in un punto leggermente più a valle rispetto alla quota delle baite. Il sentiero, con traccia sempre chiara, attraversato un secondo e minore corso d’acqua, effettua, poi, una traversata verso l’alpe Torrenzuolo, nello splendido scenario di un bosco di larici, dove luci ed ombre rinnovano ogni giorno il loro gioco silenzioso. Poco prima dell’uscita dal bosco, ci potrà accadere di udire uno scampanio che potrebbe sembrare festoso: all’alpe Torrenzuolo potremmo, infatti, trovare diverse mucche intente al pascolo. I primi prati oltre il bosco, per la verità, appartengono ancora all’alpe Gerlo, come testimonia il cartello sulla baita più alta.
Di qui, superato il cartello che indica la partenza del sentiero per l’alpe Gerlo (lo stesso sentiero che abbiamo percorso in senso inverso), ignoriamo la deviazione a destra (ma in caso di necessità teniamo presente che sale al bivacco baita Aldo e Sergio Gusmeroli) e scendiamo alle baite dell’alpe Torrenzuolo, dove si trova anche l'agriturismo omonimo, a quota 1794. Una delle peculiarità di questa splendida zona è che le diverse baite non sono anonime, ma hanno un nome che un cartello sulla loro facciata menziona. Dall’agriturismo, scendendo verso sinistra e trovando il sentiero sul limite inferiore del prato, possiamo facilmente scendere a Tartano (m. 1210), passando per le frazioni di Càneva (m. 1404) e Gavazzi (m. 1252). Questo sentiero offre anche la possibilità di riconoscere alcune specie di piante di interesse erboristico, contrassegnate da un cartellino che ne illustra il nome. Una volta a Tartano, dovremmo, però, tornare all'automobile percorrendo, in discesa, la strada asfaltata Campo-Tartano.
Per chiudere l’anello, però, senza questo noioso finale (ma anche con un po' più di fatica), possiamo proseguire su un diverso sentiero: dall’agriturismo, invece di scendere, iniziamo una breve salita in direzione opposta, cioè verso est, attraversando, appena possibile, un primo torrentello e passando a valle rispetto ai prati ed alle baite che si trovano sul versante opposto dell’alpe Torrenzuolo. Il sentiero, anch’esso con traccia chiara e corredato da qualche segnavia rosso-bianco-rosso, attraversa, poi, il solco della Val del Castino, e prosegue, in direzione nord-ovest, dopo un breve strappo, in un bellissimo bosco di larici, interrotto da un’ampia radura nella quale troviamo una baita solitaria. Qui dobbiamo prestare un po’ di attenzione, perché la traccia non è chiarissima: la radura va attraversata rimanendo a valle della baita, in diagonale. Un segnavia ci permette di individuare il punto nel quale il sentiero rientra nel bosco. Iniziamo ora a scendere in direzione dell’ultima alpe toccata dall’anello, l’alpe del Barghetto (barghèt), al cui limite superiore ci affacciamo, alla fine, uscendo dal bosco.
A questo punto dobbiamo scendere lungo i ripidi prati, verso le baite, raggruppate in due nuclei (m. 1627). Raggiunto il nucleo più basso, sul limite inferiore dei prati, prendiamo a sinistra, intercettando il sentiero che sale all’alpe direttamente dalla strada Campo-Tartano. Senza scendere per questo sentiero, prendiamo, ora, a destra, imboccando il sentiero, segnalato da segnavia rosso-bianco-rossi, che taglia il boscoso ed ombroso fianco meridionale della Val Vicima, in direzione est-sud-est. Una breve traversata ci condurrà al torrente Vicima, attraversato il quale dovremo effettuare una breve risalita lungo una fascia di bassa vegetazione, che in parte nasconde la traccia del sentiero, fino ad intercettare la mulattiera della Val Vicima, che abbiamo già percorso per salire in valle. Percorrendo la mulattiera in discesa, torniamo, alla fine, all’automobile, dopo circa 6 ore di cammino, necessarie per superare un dislivello approssimativo di 1300 metri.

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